di Giuseppe Sciarra

La premessa è doverosa: questo articolo non è un piangersi addosso o vittimizzarsi come persona queer, quanto piuttosto un guardarsi allo specchio proiettandosi negli ormai lontani anni Ottanta, un decennio dove sono stati innalzati molti miti e demoliti altri, uno tra tutti quello della libertà sessuale. Le ragioni sono da ricercarsi in un acronimo che sento da quando sono in fasce: a.i.d.s, che non ha bisogno ahimè di presentazioni.

L’ottima serie targata Netflix prodotta da Ryan Murphy e diretta da Andrew Ross, The Andy Warhol Diaries, benché esplori tre decenni della vita del grande artista statunitense, gli anni Sessanta settanta e Ottanta, sembra porre un accento maggiore soprattutto all’ultima decade. In quel decennio la vita omosessuale era possibile solo nelle grandi città cosa quanto mai attuale anche oggi dove continua a esserci un ‘esodo’ di persone lgbtqi nelle metropoli, le quali, indubbiamente offrono la possibilità di vivere più liberamente la propria sessualità.

Molti obietteranno col dire che in fuga nei grandi centri in Europa come in America, ci vanno anche molto giovani eterosessuali di provincia desiderosi di non essere guardati a vista dalle proprie famiglie e dal vigile occhio della loro comunità, però dato che non tutti i ragazzi gay o lesbiche fanno coming out con i propri ‘cari’ per diversi ragioni, in alcuni casi molto serie, questo è un motivo più che sufficiente per essere messi nelle condizioni di scappar via più degli altri e a ogni costo. Tutto questo per dire che gli anni Ottanta saranno anche finiti e si saranno fatti anche molti passi in avanti in materia lgbtqi ma se ne devono fare ancora tanti altri.

Andy Warhol non ha mai dichiarato pubblicamente di essere omosessuale ma non l’ha nemmeno mai negato così come uno dei suoi più grandi amori, Jon Gould che Andy evitava di chiamare col suo vero nome nei suoi diari segreti per tutelarne la privacy e la facciata etero. Fare coming out all’epoca, per stessa ammissione nel documentario degli amici gay di Warhol era impensabile. L’omofobia nonostante i moti di Stonewall e la nascita di molti movimenti per i diritti della comunità era a dir poco persecutoria e aggressiva, basti pensare al cinema americano (ma anche italiano) sessista e omofobo, degenerata poi a causa dell’Aids e della ricerca di un capro espiatorio da parte di un presidente degli Stati Uniti incapace di fronteggiare una pandemia – un Ronald Reagan che addirittura parlava di campi di concentramento per chi fosse affetto dal virus.

Ritornando al discorso coming out, fa rabbrividire pensare che molti gay per sopravvivere accettassero di essere relegati alla sola vita notturna e dovessero più degli altri cercare di affermarsi socialmente rivestendo a tutti i costi ruoli di prestigio per essere minimamente accettati e avere una vita dignitosa. Lo stesso Andy Warhol che si è sempre sentito un emarginato, sarebbe morto o comunque avrebbe avuto un’esistenza molto difficile se non fosse diventato uno dei più grandi artisti dello scorso secolo perché non solo era gay ma anche effeminato, inoltre non sessualmente attraente per un ambiente omosessuale molto rigido e stereotipato.

La serie al pregio non solo di raccontarci onestamente chi eravamo come comunità lgbtqi con gli occhi di un uomo sui generis come Warhol ma anche chi vogliamo essere e non siamo ancora diventati a causa di una società occidentale in cui una vera rivoluzione sessuale (non solo omosessuale) non c’è ancora stata. La situazione ad esempio in Italia per le persone queer è ancora piuttosto delicata, gli orrendi teatrini di Pillon e compagnia in merito al ddl Zan e la loro difesa a oltranza della ‘vera famiglia italiana’, rasentano il ridicolo ma sono anche pericolosi perché portano avanti una crociata che non è solo antigay ma anche deleteria per le donne (relegate a ruoli marginali della nostra società) e per gli stessi uomini costretti a recitare il ruolo del maschio italico.

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