Squilla in continuazione, s’illumina la notte. “Sono famiglie che chiamano da ogni parte d’Italia per avere notizie dei bimbi che hanno ospitato. Spesso non sanno neppure se siano vivi e dove, ma lasciano lo stesso i loro recapiti. Vogliono che la loro disponibilità a riaccoglierli subito sia tracciata in qualche modo”. Federica Bezziccheri dal 2010 è presidente dell’associazione milanese “Bambini dell’Est”. Un tempo si chiamava Chernobyl 2000, negli ultimi dieci anni ha organizzato viaggi in Italia di circa 200 ragazzini ucraini e ha avviato vari progetti per orfani con disabilità della zona attorno a Kharkiv, dove sono in corso da giorni feroci combattimenti. Da una parte il telefono, dall’altra tiene un blocco.

Dal giorno dell’invasione, spiega Bezziccheri, un mondo si è messo al lavoro (e al telefono) per riannodare il filo della solidarietà che da 35 anni lega l’Italia a migliaia di bambini e ragazzi che tante famiglie hanno conosciuto come i “bimbi di Chernobyl”, nei cosiddetti “soggiorni di risanamento” iniziati nel 1986 in seguito all’incidente della centrale tornata a mo’ di miccia nella guerra di Putin. Un filo che ha due capi. A volte sono i bimbi a chiamare dai rifugi sotterranei, dalle case bombardate, dagli istituti dove risiedono perché le loro famiglie naturali non ci sono più. Tessono reti mimetiche per aiutare i soldati, riempiono le molotov. Tante le associazioni che ricevono le loro telefonate disperate in queste ore drammatiche e che lanciano un appello perché siano organizzati corridoi umanitari per farli arrivare da noi, per salvare le loro vite. In Lombardia Soleterre, sostenuta anche dall’impegno della Fondazione il Fatto Quotidiano, è riuscita a incassare l’impegno del governatore Attilio Fontana perché siano organizzati “corridoi umanitari” per far uscire i bimbi malati di tumore che la onlus cura in Ucraina.

Ma dall’altro capo del telefono, spesso, è una famiglia che non ha un numero da chiamare ma soltanto un nome. “Sto ricevendo telefonate non solo da Milano ma da tutta Italia di famiglie che dicono “io avevo i bambini in quell’istituto, hai riferimenti? Possiamo recuperare un contatto?”, racconta Bezziccheri. E così centinaia di associazioni, in queste ore, si stanno mettendo in rete tra loro per arrivare a stilare una sorta di elenco dei ragazzi che hanno passato in Italia le loro estati più felici e ora cercano la salvezza in qualche bunker o nelle campagne. “La mia associazione era riuscita a portarne alcuni proprio prima che esplodesse la guerra, altri in seguito all’aggressione del Donbass del 2014, altri ancora perché orfani o negli istituti che si occupano di indigenti”. Perché da quei contatti, che anche altre associazioni vanno raccogliendo da giorni, potrebbe nascere una sorta di “lista nazionale” delle famiglie italiane pronte accogliere i piccoli profughi ucraini, prima ancora che si materializzino a punti d’accoglienza che si vanno attrezzando lungo la frontiera con l’Europa.

“Stiamo cercando di sistemare mamme e bambini che stanno arrivando attraverso le nostre conoscenze, ma non possiamo pensare di gestire noi i profughi. Abbiamo una lista infinita di gente che mette a disposizione la propria abitazione o le seconde case, persone che mettono a disposizione strutture intere, ma serve un coordinamento efficace e gente preparata a gestire le emergenze umanitarie”, è l’appello della presidente di Bambini dell’Est che invita governo e istituzioni a muoversi nel predisporre un programma di accoglienza. All’elenco si è appena aggiunta Viktoria. Da quando aveva nove anni è stata più volte ospite di una famiglia di Cusago, in provincia di Milano. Ora ne ha 16 e passa le sue giornate tra una sirena e l’altra nel locale caldaia di una scuola di Kharkiv sott’assedio.

La famiglia italiana sta facendo di tutto per riportarla in Italia. “Abbiamo fatto una videochiamata giusto mezz’ora fa”, racconta celando l’apprensione Michela Slomp, che col marito e le due figlie poco più grandi ha accolto “Vika” poco dopo l’inizio degli scontri nel Donbass. Lo scambio è drammatico. “Al telefono è arrivata la zia, che è anche il suo tutore. Ha detto che stavano sparando per strada. Victoria non si scompone, mi dice “che devo fare? Infondo sono stata con voi in Italia, al mare, in montagna, abbiamo viaggiato insieme a Parigi e visto Berlino, ho fatto una bella vita”. Michela non sa dove trova la forza ma risponde “le cose che ti aspettano sono ancora più belle, faremo di tutto perché accadano”. Quel “tutto”, per ora, è una strada da esplorare. “Abbiamo scritto a molti, non conosciamo nessuno. Grazie a Federica siamo entrati in contatto con un avvocato che sta a Milano ma arriva proprio di Kharkiv e lavora con associazioni e con l’Unicef. Le ho subito mandato i dati ha detto che metterà Vika nella lista con l’intenzione di portare qui questi ragazzi prima possibile. Sembra una strada promettente”.

Storie che si incrociano. Tramite “Bambini dell’Est” riusciamo a parlare con Elena Mazzola, presidente di Emmaus Ucraina (emmaus.kharkov@gmail.com), che sta cercando da 12 ore di varcare la frontiera con una decina di ragazze affette da disabilità. Storie che si moltiplicano. Da Busto Arsizio, nel Varesotto, martedì scorso è partita la missione di don Giuseppe Tedesco per portare in salvo dieci profughi ucraini, tra cui otto bambini e ragazzi che provengono dalla zona di Chernobyl e già altre volte erano stati ospitati da famiglie della cittadina grazie anche all’aiuto dell’Associazione umanitaria pro bambini nel mondo (info@aubam.org). Anche l’associazione Cittadini del Mondo (info@associazionecittadinidelmondo.it), insieme alla Federazione nazionale Avib, è pronta ad organizzare l’accoglienza dei bambini ucraini in fuga dalla guerra. Solo dalla Sardegna in 24 ore hanno risposto 300 famiglie. Ma tocca trovarli, i bambini.

C’è anche chi, sempre dall’Italia, aiuta ragazzi senza averli mai visti prima e chi ha perduto del tutto i contatti coi bambini e cerca incessantemente di trovarli, sognando di poterli in qualche modo “esfilstrare” da dentro lo scenario bellico, come piccoli soldati di pace. “Le famiglie che sento precisano che sono disposte ad accogliere anche altri, ma chiedono incessantemente notizie su quelli che hanno ospitato e verso i quali hanno un legame forte”, racconta Federica Bezziccheri non nascondendo le difficoltà legate a un aspetto paradossale. Nonostante i soggiorni dei bambini dell’est siano una realtà da 35 anni, presso le autorità e istituzioni italiane non esiste un registro spendibile per ristabilire un contatto oggi.

“Come associazioni non avevamo un accreditamento in Ucraina, per cui dovevano lavorare tramite referenti sul posto che si interfacciavano con l’amministrazione locale per le pratiche burocratiche da espletare con le autorità, le case famiglia o i tutori. Sul fronte nostro l’autorità paraministeriale che gestisce e supervisiona i progetti è il Comitato minori stranieri che fa capo alle politiche sociali. Ma a loro arrivano solo le nostre carte, vale a dire gli elenchi necessari ai visti, gli estremi del minore, della famiglia e le coordinate del viaggio che protocolla e trasmette all’ambasciata italiana. Ma i riferimenti locali erano informazioni non necessarie che rimanevano al tutore che era poi il referente ucraino. Quindi bisogna ricostruire le situazioni, ricreare le liste come sto facendo in coordinamento anche con altre associazioni. Per questo lavoro sono preziose le segnalazioni che stiamo ricevendo. A questo vuoto rispondono, insieme a richieste di notizie e offerte di aiuto che rischiano di cadere nel vuoto”.

Nel frattempo la macchina della solidarietà non si ferma. Una raccolta fondi per sostenere i minori in Ucraina viene lanciata da AiBi, l’associazione dei bambini, che opera dal 1999 attraverso la Fondazione di beneficenza ucraina Drusie Ditiei Ukraina, la cui sede è a Kiev: “All’indomani della notizia dell’invasione Ai.Bi. si è attivata per portare il proprio sostegno ai “nostri” ragazzi dell’orfanotrofio Volodarka e a tutti i bambini in difficoltà. Perché la guerra è sempre e comunque una tragedia, ma per chi non ha nemmeno la mano di mamma e papà da stringere per sentirsi un po’ più sicuro, il dramma è anche peggiore”.

t.mackinson@ilfattoquotidiano.it
Twitter:@thomasmackinson

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