Nelle piccole imprese, spesso accusate (a ragione) di non essere dotate di competenze manageriali, esistono dei modelli di comportamento da far invidia alle principali scuole di specializzazione delle grandi aziende.

In molti di noi si è consolidata una convinzione, una sorta di paradigma, che si basa sull’assunto che più tempo ci si mette a risolverlo e più un problema è difficile oppure viene svolto meglio.

Questa convinzione è derivata dal fatto che siamo abituati a trattare con lo svolgimento di compiti pre-definiti e abbastanza semplici (dalle mie parti si dice ”buttiamo le mani”), per i quali la regola è assolutamente valida: più tempo impiego e più, in termini di quantità, compito svolgo.

Non è invece così per il lavoro manageriale. Se devo, ad esempio, risolvere un problema conteranno, più che il tempo, la mia competenza e la mia capacità di inventarmi dei metodi, dei modelli, degli strumenti per risolverlo.

Avere come riferimento il tempo significa accettare concetti come: “Più tempo impiego e più è difficile il compito”. Questo messaggio viene letto così. “Più tempo impiego e più viene valorizzato il mio lavoro”. E di conseguenza: “Più si è incompetenti e più si vale”.

La mentalità che ne consegue disincentiva il capo ed i suoi collaboratori a migliorare se stessi, a trovare nuovi metodi che rendano più celere o efficiente l’attività (non dimentichiamo che il processo intellettuale non è industrialmente predefinito ma determinato dalla persona) e, nel lungo periodo, rende questa risorsa improduttiva.

La colpa di ogni inefficienza sarà attribuita al tempo, sempre troppo poco rispetto alle cose da fare. La soluzione che, poi, automaticamente affiora è che occorrono più persone che, una volta assunte, se ragionano in questo modo, non potranno che aumentare l’inefficienza dell’ufficio.

Per 25 anni ho lavorato in una banca dove i manager-direttori durante la giornata erano improduttivi e poi dalle ore 17 circa iniziavano a produrre decisioni solo per poter dire il giorno dopo che “avevano finito di lavorare alle ore 20”. Il Megadirettore Galattico, noto anche come Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam della saga di Fantozzi, era un genio al confronto!

Una concreta soluzione, invece, è quella di premiare la competenza invogliando ognuno a essere più efficiente e dimostrando che il risultato dell’efficienza va anche a suo beneficio. Vi debbono infatti essere precisi interessi, stimoli e incentivi al miglioramento, che portano allo sganciamento dalla trappola temporale.

In molte piccole aziende (non tutte!!) si finisce con il concordare con i propri dipendenti il tempo per il raggiungimento di un determinato risultato atteso. L’efficienza in questo caso va anche a vantaggio del dipendente, che potrà impiegare l’eventuale tempo che gli avanza in attività o progetti che lo interessano.

Non solo ma chi, nelle imprese, ragiona in quel modo preistorico produce anche un altro pensiero distorto.

Qualche volta i dinosauri hanno la sensazione, collaborando con persone particolarmente competenti, di aver pagato molto la soluzione di un problema, rispetto al tempo impiegato. “Sei stato troppo veloce e quindi ti sto pagando del tempo improduttivo”, questo il pensiero dominante. Parafrasando però l’affermazione di un rettore di Harward sull’educazione, dovremmo ricordare a noi stessi: “Se pensate che la competenza sia costosa, dovreste provare l’incompetenza”. Questa osservazione è valida non solo per le imprese ma anche nel mondo dei professionisti.

Si può infatti sostenere che il compenso della nostra competenza sia realmente sempre il tempo e cioè letteralmente la vita di ciascuno di noi. Il professionista potrà investire il valore tempo derivante dalla sua competenza per altri clienti o per se stesso, così come al capo-dipendente sarà dato il vantaggio di portare avanti le idee in cui crede.

Ma statene certi, il più delle volte, questa persona si occuperà di progetti che riguardano il miglioramento dell’impresa.

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