Qualcuno, impropriamente, l’ha paragonata alla guerra nella ex Jugoslavia, ma fra quanto successe negli anni ’90 fra serbi, croati e bosniaci e quanto sta capitando oggi in Donbass ci sono assai poche similitudini. Nei Balcani erano differenti le religioni, le tradizioni, in parte anche la lingua. Nel bene e nel male, per quasi mezzo secolo Tito aveva tenuto insieme popoli che in comune non avevano moltissimo e che dopo la morte del Maresciallo hanno dato sfogo ai propri nazionalismi più sfrenati. Nell’Ucraina sudorientale, invece, non ci sono etnie, la parlata è pressoché identica, il dio è lo stesso, per quanto l’autocefala chiesa di Kiev si sia staccata da Mosca, e la storia, la cultura, i classici ottocenteschi rappresentano il substrato comune. Eppure si combatte, si muore, ci si scanna fra le miniere di carbone di una regione che non è ricca, non ha il mare, non ha turismo, dove i giovani sono già scappati da tempo, la maggior parte a Kiev ed altri in Russia, e dove ormai sono rimasti i più anziani, le famiglie con bambini, chi non ha i mezzi o le conoscenze per andarsene lontano.

È una guerra difficile, quasi impossibile da spiegare se non con la lente d’ingrandimento della geopolitica internazionale da una parte e dei potenti oligarchi locali dall’altra, che con il beneplacito di Putin diedero vita nel 2014 a una separazione anche per interessi personali. Perché è vero che l’auto-proclamazione delle due repubbliche arrivò dopo le proteste di Maidan e la svolta europeista (o nazionalista) di Kiev con la destituzione di Yanukovich. Il divieto della lingua russa nei luoghi pubblici e un’atmosfera meno benevola verso l’est del Paese spinsero i separatisti a staccarsi dall’Ucraina e a intraprendere un lungo conflitto con l’esercito regolare. Ma è anche chiaro che in una zona già pesantemente in crisi dopo il crollo dell’Unione Sovietica, avvicinarsi a Mosca e ricevere i lauti aiuti del Cremlino ha rappresentato per i nuovi governanti del Donbass secessionista un buon motivo per essere indipendenti.

Le lotte interne, fra bande non sempre inclini alla legalità, si risolsero nel 2018 con l’omicidio del “primo ministro” storico di Donetsk, Aleksander Zacharcenko, freddato in un bar del centro. La Russia e l’establishment della neonata repubblica popolare diedero subito la colpa a Kiev, ma molti analisti (anche a Mosca) sostennero invece la tesi del regolamento di conti interno.

Una guerra per interessi, quindi, non certo per l’odio fra i popoli. Un conflitto in cui la linea di confine non divide filo-russi e filo-ucraini, ma è semplicemente il frutto di otto anni di scontri. Ci sono i sostenitori di Kiev fra gli abitanti del Donbass separatista ed i fan di Putin nelle zone controllate dall’esercito regolare. Hanno vissuto insieme per secoli, ma la politica e non l’odio etnico ne sta segnando i destini.

Donetsk, la città simbolo di quest’area con quasi 1 milione di abitanti e sede nel 2012 dei Campionati Europei di calcio, è stata a lungo anche il regno di Rinat Akhmetov: 7 miliardi di dollari di impero personale, uomo più ricco d’Ucraina, proprietario della titolata squadra dello Shakhtar, con investimenti in mezzo mondo ma un passato non proprio trasparente. Putin ha “regalato” oltre 700mila passaporti russi ai cittadini di Donetsk e Luhansk e ha investito parecchi rubli in quest’area per accalappiarsi le simpatie di una popolazione stanca, disillusa ed economicamente depressa. Un’operazione semplice e tutto sommato a basso costo ma che sta destabilizzando il mondo. Una guerra per interessi, non certo per l’odio fra i popoli.