Un incendio doloso che ha completamente distrutto una chiesa di Zaporizhia, città nel centro del Paese. L’auto di un parroco bruciata nel piccolo villaggio di Ovadne, sul confine polacco. E ancora la rivolta dei fedeli nella comunità di “San Sergio”, nel distretto di Volodymyr-Volynskyi, sopra Leopoli, che hanno abbandonato al proprio destino il loro “rettore” ecclesiastico dopo che quest’ultimo, sui social della chiesa, si era congratulato ufficialmente con Vladimir Putin per il suo compleanno. La guerra, finora psicologica, fra Russia e Ucraina si gioca anche sul tavolo religioso e i numerosi episodi di violenze, ricatti e tensioni susseguitisi negli ultimi anni confermano come lo scontro, ormai, coinvolga ogni sfera sociale.

Mosca e Kiev si fronteggiano dal punto di vista politico: il Cremlino mantiene oltre 100mila militari vicino al confine, Stati Uniti, Gran Bretagna ed altri Stati europei continuano a rifornire di armamenti l’Ucraina, ma dal 2018 ci si scontra anche fra confessionali e riti liturgici e si litiga persino sul Natale. Non c’è pace nemmeno attorno alla nascita di Gesù: si è sempre festeggiata il 7 gennaio in tutti i Paesi ex sovietici, ma da quando l’autocefala chiesa di Kiev ha deciso lo scisma da quella russa si discute e non poco sul cambio del calendario e sullo spostamento della Natività al 25 dicembre. Una mossa squisitamente politica, per ancorare il Paese sulla sponda europea ed atlantica? Per i putiniani certamente sì, soprattutto da quando il governo locale ha ufficializzato il 25 dicembre come festa nazionale.

A dar man forte alle istituzioni ecclesiastiche locali, il fatto che “dalla fondazione della Chiesa ortodossa ucraina, tre anni fa, vi hanno aderito circa 700 diocesi”, come ha ricordato recentemente il metropolita di Kiev, Epifanio. Molte altre sarebbero pronte a staccarsi completamente dall’influenza russa “ma ci sono ancora diversi funzionari di governo che sostengono apertamente il Patriarcato di Mosca che non facilita la conversione delle comunità religiose alla chiesa locale” e anzi le ostacola, con la connivenza, a volte, delle forze dell’ordine vicine agli oligarchi filorussi. Altro che “andate in pace”: anche la messa, oggi, è diventata fonte di divisione così come la lingua utilizzata per le funzioni, che dovrebbe essere l’ucraino in tutte le sedi ufficiali, dalla televisione alla scuola e all’università.

Ma la guerra fra il sedicesimo patriarca di Mosca, Kirill, ed il nuovo metropolita di Kiev travalica i confini interni ed è diventata ormai una querelle internazionale all’interno del mondo ortodosso ed ex sovietico. Il primo riconoscimento ufficiale all’autocefala chiesa ucraina è arrivato a Istanbul nel 2019 dal patriarca Bartolomeo. A seguire, gli ortodossi greci, di Alessandria d’Egitto e quelli ciprioti hanno dato l’assenso allo scisma, ma anche georgiani e bulgari stanno appoggiando de facto la separazione. Chi invece dà man forte all’ortodossia moscovita è naturalmente il fedele presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, che più volte da Minsk ha tuonato “per riportare l’Ucraina nel seno della nostra vera fede”. E mentre la Pcu di Kiev è diventata la quindicesima chiesa ortodossa al mondo, il 52% degli ucraini appoggia la divisione, il 34% ha un atteggiamento neutrale e il 9% ne è contrario.

Mosca, comunque, non ci sta: accusa apertamente Costantinopoli di aver creato una spaccatura nell’ortodossia universale esclusivamente per finalità politiche e non religiose. A Kiev si è parlato costantemente nell’ultimo anno di una possibile visita di Papa Francesco, ma l’emergenza Covid e le nuove tensioni con Putin consiglieranno Bergoglio di mantenersi distante dalle guerre intestine alla chiesa ortodossa. La visita a Santa Sofia, per ora, può attendere.

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