“Ricordo di aver sentito dal rappresentante Ue riferire che era stato colpito dalla dimensione dei traffici illegali di materie prime nella regione di Goma e dal fatto che osservatori americani avevano parlato di un’allerta sul terrorismo”: a parlare è Saro Castellana, cancelliere contabile presso l’ambasciata italiana di Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo. Era stato incaricato dall’ambasciatore Luca Attanasio di partecipare a una riunione dei Capi missione Ue il 18 febbraio 2021, nell’imminenza della partenza del diplomatico per la missione del Programma alimentare mondiale dell’Onu durante la quale, 4 giorni dopo, verrà ucciso in un’imboscata insieme al Carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci, e a uno degli autisti, Mustapha Milambo. La settimana prima, il Rappresentante dell’Unione europea in Congo si era recato in visita proprio a Goma, per questo Attanasio aveva incaricato Castellana di relazionargli i contenuti della riunione. “Ho letto la mia annotazione sulla plausibile allerta terroristica – ha poi raccontato ai magistrati della procura di Roma incaricati delle indagini – L’Ambasciatore mi ha chiesto cosa volessi dire e se avessi capito bene. Gli ho risposto che sarebbe stato opportuno acquisire ulteriori informazioni”. Poche ore dopo, i due si incontrarono di nuovo e Attanasio riferì a Castellana “che avrebbe dovuto parlare del viaggio con il dottor Russo”, il console italiano a Kinshasa. Una situazione che, secondo quanto raccontato dalla moglie di Attanasio, Zakia Seddiki, ai magistrati, non spiega il motivo della partenza di suo marito: già in passato, dice, in situazioni di rischio simile ha optato per l’annullamento della missione. “Deve aver ricevuto rassicurazioni dal Pam”, conclude la donna.

La moglie: “Senza le garanzie del Pam, Luca non sarebbe mai andato”
Seddiki a marzo metteva a verbale che il marito aveva “ricevuto un invito da parte del Pam perché nella missione sono intervenuti anche dei fondi italiani” e quindi voleva andare a verificare il programma che stavano sviluppando. Fondi cospicui, come si evince dal verbale di assunzione di sommarie informazioni di Peter Musoko, direttore Paese del Pam, il capo dell’indagato Rocco Leone: “Leone mi ha parlato di un contributo italiano di un milione di dollari”. Tornando al verbale di Seddiki, la signora ribadisce che suo marito “chiese notizie in merito alla sicurezza e il Pam gli assicurò che avrebbe provveduto” e che “anche i Carabinieri della scorta avevano fatto richiesta per sapere il livello di sicurezza della strada e gli era stato riferito che il percorso era sicuro”. Dell’interesse dei militari dell’Arma si ha conferma leggendo le trascrizioni della telefonata del 24 febbraio, due giorni dopo l’agguato, tra il Carabiniere scelto, Luigi Arilli, anche lui di stanza a Kinshasa, e il titolare di un popolare ristorante di Goma, un punto di riferimento per l’ambasciata italiana nella città congolese: “Vittorio (Iacovacci) prima di arrivare lì vi aveva contattato per chiederle forse qualche informazione in merito (alla sicurezza, ndr)?”, chiede il Carabiniere. “Non me. Probabilmente il mio collega Gianni, non ho idea. Non aveva chiamato me, ma aveva chiamato probabilmente Gianni Giusti (console onorario a Goma, ndr)”. E anche Arilli conferma: “Con Gianni già so che aveva preso contatti”. Iacovacci, quindi, si era preoccupato di verificare quale fosse la reale situazione relativa alla sicurezza nell’area. Non così tranquilla come invece l’aveva giudicata il Pam inserendola nella fascia ‘verde’, ossia quella a rischio minimo: “Non si può portare un ambasciatore lì senza avere una macchina blindata – dice infatti il ristoratore -, senza informare il governatore. Cioè hanno fatto (il Pam, ndr) delle cose come dei turisti, non si fanno quelle cose. Stamattina alle 9.30, nello stesso posto, ne hanno ammazzati altri quattro“.

A Goma l’ambasciatore era già stato più di una volta, ma mai sulla route nationale 2, la strada che da Goma va verso Rutshuru: “Era la prima volta che percorreva quella strada, se non ci fosse stato l’invito ufficiale del Pam che garantiva le misure di sicurezza, mio marito non sarebbe mai andato in quella zona specifica”. Abitualmente, Luca Attanasio si muoveva con auto blindata e due carabinieri di scorta. Perché in questo viaggio ce n’era uno solo? “Perché il Pam aveva garantito la sicurezza comunicando che non erano necessari tutti e due i Carabinieri di scorta.”
E ancora: “Noi ci siamo fidati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite” e infatti “in precedenza hanno annullato una missione perché non gli avevano fornito il mezzo blindato”. Quest’ultima notizia viene confermata da Timothee Mabaya Hunga Kisendu, assistente personale dell’ambasciatore: “Nel mese di dicembre scorso, avevo ricevuto dall’ambasciatore una proposta di viaggio nella provincia di Kikwit (…). Avendo però ricevuto io notizia che sulla strada vi era la presenza di ribelli armati, l’ho riferito all’ambasciatore che ha annullato il viaggio”.

La mossa del viceambasciatore congolese: “Se l’Italia paga, possiamo catturare 4 sospettati”
Dalle carte dell’inchiesta dei pm di Roma emergono anche le difficoltà di collaborazione con le istituzioni congolesi, senza la possibilità di recarsi direttamente sul luogo dell’agguato a causa di un’autorizzazione legata alla sicurezza mai arrivata. C’è un episodio che rappresenta un esempio calzante. Lo racconta nella sua testimonianza all’aggiunto Sergio Colaiocco che segue l’indagine un tenente colonnello dell’antiterrosimo dei Carabinieri che in due occasioni ha ricevuto una richiesta di incontro, attraverso il console onorario della Repubblica democratica del Congo, da parte del viceambasciatore del Paese africano a Roma, Benjamin Osango Noya. Era il 19 aprile, Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo erano stati uccisi lungo la strada tra Goma e Rutshuru da nemmeno due mesi e il diplomatico chiese al militare dell’Arma di vedersi in “un luogo pubblico” che, in quell’occasione, fu piazza Barberini, a Roma. Cosa che, spiega il Carabiniere fa “ipotizzare come le due occasioni di incontro possano essere state un’iniziativa personale” dei due “di cui non si esclude possa esserne all’oscuro lo stesso ambasciatore della Rdc”.

Già dal primo incontro, Osango Noya scopre le carte. Dice al tenente colonnello che “entro un mese sarebbe stato consegnato un rapporto redatto dall’intelligence congolese che attribuirebbe la responsabilità dell’attacco al Fronte Democratico per la Liberazione del Rwanda (Fdlr)”, gruppo ribelle di etnia Hutu che opera in quell’area del Congo. Un’informazione fondamentale, tanto che le parti fissano un nuovo faccia a faccia una settimana dopo, il 26 aprile, sempre all’aperto, in piazza della Repubblica. In quell’occasione, il diplomatico aveva aggiunto che le autorità “sarebbero giunte a identificare quattro tra i responsabili dell’attacco, tutti di nazionalità rwandese, genericamente localizzati nella zona dell’attacco”. Per poter procedere al blitz che avrebbe portato al loro arresto, però, il viceambasciatore avanzò al membro dell’antiterrorismo la richiesta di “supporto dell’Italia per finanziare sia lo spostamento del personale congolese da Kinshasa a Goma che per retribuire una risorsa fiduciaria di quegli stessi Servizi ipoteticamente in grado di localizzare i catturandi”. In sostanza, Osango Noya stava chiedendo dei soldi allo Stato italiano per favorire l’arresto di quelli che erano, a suo dire, i quattro principali indiziati dell’agguato al convoglio del Programma alimentare mondiale dell’Onu. Una richiesta irrituale, tanto che il militare ha dovuto rispondere che “la legislazione nazionale […] non risulta annoveri meccanismi di finanziamento di autorità fi polizia/giudiziarie estere“.

Quegli arresti, poi, avverranno ugualmente. Proprio un mese dopo, il 22 maggio, con tanto di annuncio da parte del presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi. Parole che colsero di sorpresa gli investigatori italiani, così come la Farnesina, tanto che a Roma si arrivò alla conclusione che non fosse altro che una nuova comunicazione legata agli arresti già effettuati a marzo. Quando le autorità, in seguito a questo incontro, chiesero conto al titolare delle indagini in Congo, il colonnello Katandula Musamba, questo confermò però i quattro arresti. Ma quelle persone, si scoprirà dopo, erano estranee ai fatti e saranno infatti liberate.

Ma il viceambasciatore non si era fermato a fornire presunte informazioni utili alle indagini, ma decise di puntare il dito contro uno dei membri del convoglio attaccato. Una delle vittime: l’autista Mustapha Milambo. Il viceambasciatore affermò infatti che il conducente della prima auto della spedizione era “sospettato di aver fornito gli assalitori informazioni utili a pianificare l’azione criminosa”. Secondo il racconto, era lui la spia, la talpa all’interno del gruppo che, però, in quell’operazione è stato il primo a rimanere ucciso. Ma quando il Carabiniere ha cercato di verificare l’attendibilità dell’informazione, Osango Noya si era limitato a dire che “l’accertamento delle responsabilità era il risultato di elementi oggettivi”, ma, ha poi spiegato il militare dell’Arma, “non mi sono stati specificati di quali fonti di prova si tratti”. Un’informazione che, ad oggi, non ha infatti trovato alcun riscontro.

Twitter: @simamafrica @GianniRosini

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