Dopo una settimana di sbornia e tensione a mille, i partiti (a testa bassa) cercano di rientrare nei ranghi. Il presidente del Consiglio Mario Draghi, anche lui protagonista attivo degli ultimi sei giorni di convulsioni parlamentari, ha deciso di dare un segnale e lunedì potrebbe essere convocato il consiglio dei ministri (le agenzie di stampa assicurano che saranno almeno due in settimana). Resta da capire come le forze politiche, massacrate e dilaniate dalle rese dei conti interne, potranno sedere al tavolo dell’esecutivo. Dal centrodestra passando per i 5 stelle fino al Pd, non c’è fronte che non esca dalla lotta per il Quirinale con le ossa rotte ed è inevitabile che a subirne lo strascico sarà anche lo stesso governo. I leader, quelli che ne escono più sconfitti di tutti, garantiscono che si andrà “avanti più compatti di prima”. Ma dagli annunci ai fatti, come si è appena visto nell’Aula di Montecitorio, la strada è lunga e ricca di insidie. Senza dimenticare che anche Draghi, colui che si è definito “nonno al servizio delle istituzioni”, ha sì portato a casa la conservazione dello status quo e evitato ulteriori fibrillazioni sul suo esecutivo, ma esce dalla settimana quirinalizia con un’immagine un po’ diversa di quella di fine anno perché è diventata più chiara la sua ambizione di diventare capo dello Stato, circostanza impossibile soprattutto per la chiara ritrosia del Parlamento a votarlo nelle 8 votazioni. Con quale spirito condurrà ora l’ultimo anno di legislatura? Di sicuro i dossier sul tavolo (dalle norme Covid a giustizia ed economia) sono tanti, per non parlare delle decine di traguardi da raggiungere sul percorso del Recovery plan. Sullo sfondo, infine e soprattutto, la campagna elettorale permanente che i partiti porteranno avanti nei prossimi 12 mesi. Neanche sono finite le trattative per il Colle, che già sono svolazzate qua e là richieste di rimpasto e una decina di smentite. Quello che è sicuro è che i leader si sono messi in coda per chiedere incontri privati al premier (in testa ci sono Salvini e Conte) e tutti avranno le loro priorità da presentare poi agli elettori.

I rapporti nelle coalizioni e nei partiti
Intanto c’è il livello tutto politico. I partiti escono dall’elezione per il presidente della Repubblica più sfilacciati di quanto non fossero già prima. Le tossine si scorgono tra i vari schieramenti (che eccezionalmente governano insieme), ma anche dentro le coalizioni e perfino all’interno dei singoli partiti.

I rapporti interni al centrodestra sono ai minimi termini: Meloni dice che il centrodestra è “polverizzato“, Salvini convoca un consiglio federale della Lega senza dire quando e annuncia che vuole ragionare sul futuro della coalizione “con chi è sinceramente interessato“, Tajani esplicita che “Meloni ha un’opinione, noi un’altra ma senza l’anima popolare il centrodestra non sarà un’alleanza di governo”. Il tema è quanto conterà questo dal punto di vista di sondaggi e ricerca dei consensi nella gara interna all’alleanza. Quanto Salvini alzerà l’asticella all’interno della maggioranza di governo per stare al passo di Meloni che sarà libera di cannoneggiare a piacimento l’azione dell’esecutivo?

Nel centrosinistra a sentire le parole di Enrico Letta e Giuseppe Conte la situazione è più serena. Ma continua ancora in queste ore la risacca di ricostruzioni sul voto del Quirinale, a partire dal caso Belloni, che raccontano di una diffidenza crescente nel Pd nei confronti dell’ex premier e dei 5 Stelle. E nel frattempo una parte del partito – e una parte di giornali – ha molto esaltato un presunto ritorno di fiamma tra Letta e Matteo Renzi, puntellato su quella battaglia comune contro la candidatura a presidente di Franco Frattini. E’ una circostanza tutta da vedere e riverificare, ma resta la questione di un pezzo di partito che a volte ragiona a prescindere dalla linea del segretario e con il quale quindi il segretario deve fare i conti (questione Belloni compresa).

Infine i 5 Stelle: dentro il Movimento la resa dei conti è iniziata neanche un’ora dopo la rielezione di Mattarella. E gli sviluppi sono quelli che racconta la cronaca con lo scontro ormai frontale tra il leader Giuseppe Conte e il suo predecessore Luigi Di Maio, con accuse reciproche sulle responsabilità e sull’operato durante le trattative per l’elezione del capo dello Stato. Una situazione di difficoltà emersa in tutta la sua evidenza quando proprio dal gruppo parlamentare M5s decine di eletti hanno cominciato a votare per conto loro – a prescindere dai dirigenti – spingendo per il secondo mandato a Mattarella. Oggi i due si sono fronteggiati pubblicamente a suon di dichiarazioni e quello che può venire dopo (dalla resa dei conti all’assemblea degli iscritti), non può di certo fare bene al Movimento.

Rimpasto
In aggiunta a tutto questo la situazione potrebbe salire di temperatura se davvero il tema diventasse quello avanzato per la prima volta poco dopo la rielezione del presidente della Repubblica da Salvini: il rimpasto, immancabile argomento dopo ogni tornante politico. “Ne parleremo con Draghi, se c’è qualche ministro che non ha voglia di lavorare o di non essere coerenti è giusto che ne parliamo ma da lunedì”. In realtà questa uscita nasconde la presa di posizione, tutta ancora da decifrare, del ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti, che ha dato una mezza smentita sulle sue dimissioni ma ha anticipato una richiesta di incontro – insieme a Salvini – con il presidente del Consiglio, con il quale com’è noto c’è un rapporto stretto di fiducia. Anche qui le interpretazioni sono tante: si moltiplicano per esempio i tavoli sindacali del periodo post-pandemia e la poltrona del Mise comincia a non avere proprio il massimo del comfort, specie con vista elezioni. Senza dimenticare le tensioni tra Giorgetti e Salvini: il capo-delegazione nel governo è stato volutamente fuori dalla trattative di questi giorni, segnando una presa di distanza nettissima. Cosa volesse dire, lo si capirà meglio solo nei prossimi giorni.

Fuori dall’uscio di Draghi si è messo in coda anche Giuseppe Conte: “Il M5s non ha mai espresso l’esigenza di un rimpasto: è una roba sulla quale noi non abbiamo nessuna sensibilità. Noi vogliamo un patto per il Paese e siamo disposti a rinnovare il nostro impegno” nel governo. Ma detto questo, ha detto di volere un incontro con il premier per parlare dei prossimi passi e delle riforme che stanno a cuore ai 5 stelle. Ha chiuso totalmente al rimpasto anche Enrico Letta: aprire ora una ridistribuzione delle poltrone potrebbe solo mettere a rischio un equilibrio, lo abbiamo visto, molto precario.

Un grande ritorno: la riforma elettorale
Non bastasse, tra le altre ce n’è una che gli elettori capiscono poco, ma che è spesso fondamentale nel rapporto con gli eletti e per i partiti è fondamentale per i loro obiettivi: la riforma elettorale.

È partito da qui, per esempio, Enrico Letta. Il segretario Pd, intervenendo a Mezz’ora in più di Lucia Annunziata, ha, tra le altre cose, attaccato l’attuale legge elettorale confermando che sarà un tema da affrontare “per permettere ai cittadini di scegliere gli eletti. Ed eliminare la peggiore legge elettorale che c’è mai stata, il Rosatellum“. Oggi il leader democratico ha cercato di andare oltre la botta del Quirinale e ha annunciato su quali temi spera che si muova l’esecutivo: “La politica ha un anno per autodeterminarsi”, ha detto. E lui intende spingere su una norma “contro i cambi casacca” perché “è una delle cose che rende più lontana la politica”. Poi naturalmente il nodo del caro energia, la lotta alle disuguaglianze e la questione dei precari: “In un anno si possono fare tante cose”. Ma è proprio sulla legge elettorale che i partiti potrebbero litigare e anche tanto. Contraria al proporzionale c’è ad esempio Forza Italia (che senza il maggioritario potrebbe essere erosa dai partiti alla sua destra) e oggi lo ha ribadito Antonio Tajani che ha confermato la sua fedeltà al maggioritario. Una riforma che creerebbe molti problemi in tutta la coalizione di centrodestra, vista la forte contrarietà di Fratelli d’Italia (ha detto Giorgia Meloni nelle scorse ore “ci opporremo al pantano”). D’altra parte il proporzionale – tanto per andare un po’ più in là con la mente – potrebbe tradursi in un “Draghi forever”, se per caso il centrodestra non avesse una chiara e forte maggioranza dopo le elezioni del 2023.

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