“È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento, affinché il Consiglio superiore della magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, superando logiche di appartenenza che devono rimanere estranee all’ordine giudiziario”. Nel discorso di reinsediamento Sergio Mattarella è tornato a battere su un tema che gli sta a cuore: la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Tutti la invocano da almeno tre anni, da quando il trojan nel cellulare di Luca Palamara ha svelato le mercanzie sulle nomine di vertice. Ma il testo della ministra Marta Cartabia, atteso dalla scorsa estate, non l’ha ancora mai visto nessuno: doveva essere presentato prima di Natale, poi è saltato tutto in vista dell’elezione del capo dello Stato. Che adesso esorta per l’ennesima volta il governo a fare in fretta, perché il rinnovo del Csm incombe (è in programma a luglio) e non si può rischiare di votare “con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili, cioè una legge elettorale che avvantaggia le correnti. Eppure un disegno di legge – completo e pronto all’uso – ci sarebbe già: quello dell’ex ministro Alfonso Bonafede, bloccato da fine 2020 in Commissione Giustizia alla Camera in attesa degli emendamenti dei Migliori. Un testo base che interviene in modo deciso sui nodi più urgenti (venendo incontro alle richieste degli addetti ai lavori) ma che il governo non sembra voler valorizzare.

Sulla base di quanto diffuso finora, infatti, Cartabia ha intenzione di annacquare il ddl su almeno due aspetti fondamentali. Il primo è proprio il sistema elettorale dei membri togati. Al momento funziona così: tre collegi unici nazionali eleggono rispettivamente dieci giudici di merito (primo grado e appello), quattro pm e due giudici di legittimità (Cassazione). Il metodo è “chi vince regna”: passano i primi classificati a prescindere dalle liste, il che rende impossibile l’elezione di magistrati indipendenti. Per questo la Bonafede proponeva di aumentare il numero dei togati da 16 a 20 e farli eleggere da altrettanti piccoli collegi uninominali con la possibilità di esprimere tre preferenze e la previsione del ballottaggio se nessuno raggiunge il 65% dei voti. “Con questo sistema, anche se maggioritario – spiega al fatto.it Eugenio Saitta, capogruppo M5S in Commissione Giustizia e relatore del ddl – un magistrato conosciuto e apprezzato sul territorio avrebbe possibilità di farcela”. Gli emendamenti Cartabia, invece, prevederebbero collegi molto più grandi (quattro o cinque per il merito, due per i pm, uno per la Cassazione) in ognuno dei quali passano i primi due classificati. Un’ipotesi già criticatissima dagli addetti ai lavori: secondo i consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteosarebbe il trionfo del correntismo e del bipolarismo, che provocherà ulteriori spaccature e conflitti“.

Al progetto di riforma è contraria anche la grande maggioranza delle toghe, che in un referendum interno convocato dall’Associazione nazionale magistrati ha espresso la preferenza per un sistema di tipo proporzionale (che ha ottenuto 3189 voti contro i 745 per il maggioritario). Ma non solo: a differenza dei gruppi che li rappresentano – quasi tutti contrari – giudici e pm non sembrano disdegnare nemmeno l’ipotesi di un sorteggiotemperato” per eleggere i colleghi al Csm. Nello stesso referendum, infatti, al quesito se vogliano che i candidati siano scelti “mediante sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere” hanno risposto sì in 1.787 su 4.275 (il 41,8%), anche se il no è risultato di poco prevalente. “Questo dimostra che i magistrati al lavoro nei tribunali la pensano in modo molto diverso dalle correnti”, dice Saitta, ricordando che il M5S – così come Forza Italia e Lega – “guarda con favore all’ipotesi del sorteggio temperato”. Che però non sembra essere sul tavolo, perché la ministra Cartabia – e il Partito democratico – lo considerano incostituzionale. “Il sorteggio significa che al Csm potrebbe finire chiunque, anche il magistrato più inadeguato“, dice al fatto.it l’altro relatore del ddl Bonafede, il dem Walter Verini. “Lasciati a se stessi quasi tutti i parlamentari lo vorrebbero domattina, ma il principio è gravemente sbagliato”.

L’altro grande tema al centro della riforma è quello delle “porte girevoli“, cioè il rientro in servizio dei magistrati che si candidano in politica o vengono eletti. Il ddl Bonafede adottava una soluzione drastica: chi finisce un mandato elettorale non può più riprendere le funzioni giudiziarie, ma dev’essere collocato fuori ruolo. Cartabia invece non ha ancora deciso se confermare la linea dura o virare su una soluzione più “soft”: sì al rientro nelle aule di tribunale, ma con un “periodo di raffreddamento” di cinque anni da trascorrere in un diverso distretto e senza poter svolgere le funzioni più delicate (gip/gup o pubblico ministero) e occupare ruoli direttivi. “Non capiamo perché mettere in discussione il divieto di reindossare la toga, che è sacrosanto e riguarda solo quei pochi magistrati che scelgono di entrare in politica”, dice Saitta. Mentre per Verini il tema “pone dei problemi di costituzionalità: oltre all’indipendenza della magistratura bisogna tutelare anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro, che potrebbe non essere garantito dalla collocazione fuori ruolo. E al primo ricorso potrebbero esserci dei problemi”. Sabato il Comitato direttivo centrale dell’Anm si riunisce per concordare una posizione sull’ipotesi di riforma, anche sulla base del risultato dei referendum: ma anche a loro la ministra non ha mai sottoposto nemmeno una bozza di testo.

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Csm, l’Anm: “La riforma tarda a vedere la luce, c’è il rischio che non arrivi in tempo. La politica inerte ha una pesante responsabilità”

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