Aberdeen è la terza città più popolosa della Scozia. È un centro urbano vivace e dal carattere forte, forgiato da uno dei porti più importanti del Mare del Nord. Non a caso è soprannominata la Città del Granito, anche grazie al materiale (estratto dalle cave locali) con il quale sono costruiti molti dei suoi edifici. Alla fine degli anni Settanta serve proprio una personalità innovativa e granitica per spezzare il duopolio Rangers-Celtic che vige nel campionato scozzese (venti titoli degli ultimi ventiquattro sono andati ai cattolici o ai protestanti di Glasgow). Ed è proprio questa la figura che i dirigenti dell’Aberdeen individuano e scelgono nell’estate 1978. È un ex-attaccante che ha allenato il St. Millen nelle ultime tre stagioni, nato quasi 37 anni prima (il 31 dicembre 1941) a Govan, un piccolo distretto della città di Glasgow. Si chiama Alexander Chapman Ferguson.

A lui non si chiedono grandi cose. Tra i dirigenti dei Dons non ci sono “grandi pretese”. Ma Ferguson è ambizioso e voglioso di scrivere la storia. Vuole ribaltare quell’albo d’oro che l’Aberdeen ha occupato solo nel 1955. La prima stagione è di ambientamento (quarto in classifica a -8 dalla vetta), ma la seconda è già quella della svolta. È il 1979/80. L’anno è vissuto sottotraccia e all’inseguimento del Celtic Glasgow. In costante attesa che la vite giri nel modo giusto. Il momento decisivo arriva a quattro giornate dalla fine. Al Celtic Park i Dons dominano tre a uno grazie alle reti di Archibald, McGhee e Strachan. Il teatro dei festeggiamenti invece è Edimburgo, contro l’Hibernian. La classifica finale recita: Aberdeen 48, Celtic 47.

Il terreno di conquista però diventa un altro. È la Scottish Cup, la terza competizione nazionale. Due vittorie consecutive consolidano il ciclo di Ferguson. Entrambe arrivate contro il Rangers Glasgow. Nel 1981/82 i Gers vengono battuti per quattro a uno. Dodici mesi dopo per uno a zero, al termine di una sfida incerta, bloccata, sofferta, risolta soltanto negli ultimi secondi dei supplementari dal colpo di testa di Eric Black. Proprio uno dei grandi protagonisti del primo titolo stagionale, ottenuto dieci giorni prima nella cornice più inattesa, quella europea.

È l’11 maggio 1983. Allo stadio “Ullevi” di Goteborg l’atmosfera non potrebbe essere più scozzese. Pioggia intensa, umidità e un campo ai limiti della praticabilità. È in questo contesto che la squadra di Ferguson è chiamata a giocare la sua prima finale europea della storia. È la Coppa delle Coppe. Di fronte un avversario all’apparenza fuori portata: il Real Madrid di Camacho, Juanito, Santillana e guidato da Alfredo Di Stefano. L’Aberdeen è la rivelazione della manifestazione. Sion, Dinamo Tirana, Lech Poznan e il Waterschei Thor (in semifinale) sono stati superati con relativa facilità. La vera impresa viene compiuta nei quarti di finale contro il Bayern Monaco. Dopo lo zero a zero in Baviera, gli scozzesi riescono a vincere tre a due al Pittodrie Stadium dopo essere stati due volte in svantaggio. Un match pieno di colpi di scena e deciso nello spazio di 120 secondi, tra il 76esimo e il 78esimo minuto. Prima McLeish trova il pari, poi Hewitt (entrato da appena tre minuti) si avventa su una respinta debole del portiere tedesco Muller e porta l’Aberdeen in semifinale.

Ma il Real Madrid è un’altra cosa. È un club che ha già in bacheca 20 campionati, 6 Coppe Campioni e 1 Coppa Intercontinentale. Per batterlo serve alzare ulteriormente l’asticella. Serve una partita perfetta. È quella che Alex Ferguson chiede ai suoi. È quella che gli scozzesi mettono davanti agli occhi dei 18.000 giunti in terra svedese. L’inizio è infatti un sorprendente dominio nel segno di Black. Il numero dieci prima colpisce una traversa e poi segna l’uno a zero con un tocco ravvicinato dopo un errore di Juan José. Sono passati appena otto minuti di gioco. Il pareggio di Juanito su calcio di rigore sette minuti dopo è solo un fuoco di paglia. I Dons sono ben messi in campo e non concedono più nulla, controllando e dominando il Real Madrid con una sicurezza anomala, degna di una squadra veterana del calcio internazionale. Quando McGhee se ne va sulla sinistra mancano solo sette minuti alla fine dei tempi supplementari. Il suo cross per John Hewitt è perfetto, l’uscita di Agustin no. È il due a uno finale.

Tutto finito? Niente affatto. Sette mesi dopo il capitano Willie Miller alza al cielo anche la Supercoppa Europea. Questa volta è l’Amburgo (vincitore della Coppa Campioni contro la Juventus di Trapattoni e Platini) a cedere per due a zero. Simpson e McGhee hanno trasformato l’Aberdeen nella squadra scozzese più vincente in campo internazionale. Un’etichetta valida ancora oggi. I successi oltre confine si trasformano in un impulso incontrollabile. L’Aberdeen di Ferguson diventa la squadra padrona di Scozia. La città di Glasgow non è più il centro del calcio scozzese. In campionato, nel 1983/84, i punti di vantaggio sul Celtic sono sette. In Scottish Cup arriva invece il terzo successo consecutivo. Avversari: ancora i cattolici di Glasgow. La rivalità tra i Dons e i Celts si rinnova anche l’anno seguente, sempre con lo stesso esito. Ancora con sette punti di vantaggio.

Ormai Ferguson è uno degli allenatori più richiesti in Europa. Ma lui non vuole andarsene senza l’unico trofeo nazionale che gli manca: la Coppa di Lega. Il vuoto viene riempito nella stagione 1985/86. Contro l’Hibernian ci pensano Eric Black (con due reti) e Billy Stark. L’ultimo successo assoluto però è ancora una volta nella Scottish Cup. Tre a zero all’Heart of Midlothian. È il titolo numero 10 in appena otto anni di gestione. Per Ferguson è l’ultimo atto. È giunto il momento di partire. Il Manchester United lo sta aspettando per farlo diventare uno degli allenatori più grandi e influenti di sempre. Ma questa è un’altra storia.

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