Quando una sala cinematografica o teatrale incontra le misure anticontagio di Mario Draghi, i lavoratori del settore sarebbe meglio si comportassero da Django e non da Stephen, il maggiordomo afroamericano del vile Monsieur Calvin Candle (DiCaprio) nel film di Tarantino. La battuta ad effetto è subito bruciata in attacco, ma l’atteggiamento mentale piuttosto sottomesso di chi lavora nel settore culturale è attiva fin dal 6 agosto 2021, quando l’ineffabile primo ministro italiano spiegò urbi et orbi che il green pass avrebbe salvato le persone dalla morte (certa) e l’economia dalla (solita) crisi. E nulla: chi è che in piena estate, oltretutto con le sale chiuse per ferie, si è sacrificato subito sull’altare della patria del lasciapassare? La cosiddetta area (semantica) dello “svago”, come se un virus scegliesse i luoghi dove infettare gli esseri umani.

Ovviamente le associazioni di categoria, cito quelle che conosco direttamente a livello di comunicazione settoriale (cinema e teatri), nemmeno un fiato. Modello crogiolo dell’anello matrimoniale di ducesca memoria. Nessuna richiesta di delucidazioni, di risultati di studi ad hoc, di dimostrazioni reali che le sale cineteatrali – dove si entrava ben dall’estate 2020 con l’obbligo di mascherina dal primo all’ultimo secondo di permanenza (nella peggiore delle ipotesi due ore e mezza-tre) e distanziandosi un metro dal vicino – fossero spazi di propagazione pestilenziale del Covid che nemmeno il tinello di casa. Invece nulla. Obbedisco sua maestà. Finalmente il tampone. Guardi, sua maestà, prima nelle sale era l’inferno.

Beh, morale della favola, dopo quattro mesi dal GreenPass arriva il SuperGreenPass, che dice il contrario, e che succede? Che per chi non si è vaccinato il tanto osannato tampone per entrare in una sala non basta più. È la punizione del gesuita: cilicio e penitenza in eterno, senza che però, come sempre, venga esibito uno straccio di prova scientifica ad hoc, uno studio mondiale, europeo, nazionale, regionale (con i governatori che abbiamo, dai, eh?), locale (con i sindaci che abbiamo, suvvia). Allora, chi contagia chi dentro le sale? Un paio di esempi su macroscala ci sarebbero e sono, almeno in Italia, i due festival di Venezia 2020 e 2021 regolarmente svolti. Con quello del 2020 quando non c’era il vaccino e quello del 2021 con vaccinati e non vaccinati tamponati. Per il 2021 abbiamo dei dati confermati da Ausl e Biennale: su quasi diecimila accreditati in dodici giorni di festival (quindi decine e decine di proiezioni dove tutti gli accreditati si incrociano di continuo) ci sono stati tre positivi. Per l’esattezza: due vaccinati e un non vaccinato. I dati sono agli atti. Nessuno se li inventa o li trova tra i link del gombloddo.

Ma niente, la continua giravolta tamponi-sale continua. E il 6 dicembre 2021 le associazioni di categoria nemmeno un sospiro. Anzi, è il trionfo. Questa volta nel sostenere il contrario di quattro mesi prima. Grazie Draghi. Lei è un genio. La vogliamo presidente Anica al posto di Rutelli. La vogliamo regista, attore, montatore, proiezionista e strappa biglietti. Il tampone per entrare nei cinema e nei teatri? Ma che boiata, abbiamo passato quattro mesi nel terrore, ma che scherziamo? Meglio aver fatto l’antitetanica nel 1986.

Poi che succede? Succede che si alzano i contagi proprio sotto le feste, che si ammalano anche i vaccinati (e che finiscono, purtroppo, in ospedale, ma qui andrebbe chiesto conto a Pfizer & co: figuriamoci) e che dopo nemmeno quindici giorni per entrare nei cinema e nei teatri c’è di nuovo bisogno di farsi un tampone. Attenzione però: solo per i vaccinati, perché un non vaccinato sano che adoperasse lo stesso tampone del vaccinato non può più entrare ad libitum per punizione divina: ma allora il tampone serve per tutti o non serve per nessuno? Solo che oramai a questo giro, tra terrore quotidiano su quello che oramai sembra essere l’unico luogo del contagio Covid al mondo (un cinema o un teatro) e costo del tampone (capiranno in molti cosa significa farli pagare 15 euro quando ne costano un quarto), al cinema ci andranno giusto gli irriducibili cinefili con un conto in banca che gli consente di gareggiare con il Ceo di Pfizer.

E le associazioni di categoria ce le siamo dimenticate? Certo che no. Nell’ultimo comunicato Agis si parla di “forte preoccupazione per l’obbligo di tampone”, ma soprattutto del classico riflesso pavloviano alla Stephen di Django Unchained: “Giova ricordare in questa sede che chi partecipa ad attività culturali deve essere dotato di super green pass, misura da noi convintamente sostenuta (…) Aggiungere a ciò l’obbligo di un tampone comporterebbe un fortissimo disincentivo alla partecipazione ed indebolirebbe lo strumento molto efficace del super green pass”.

Quindi allora ricapitoliamo il pensiero della associazioni di categoria: il 6 agosto farsi un tampone è efficace (leggasi GreenPass): evviva!; il 6 dicembre invece non farsi il tampone (leggasi SuperGP) è efficace: evviva uguale! Cosa dovrebbe quindi pagare nel rapporto istituzionale tra governo e associazioni di categoria di cinema e teatri? Quel “convintamente sostenuto” o il fatto che tutti, vaccinati e no, possano più o meno contagiare o non contagiare quando vanno al cinema? Già il riutilizzo al tampone per cinema e teatri nonostante il SuperGP ha mostrato che la ratio governativa è andata in tilt (spieghino i candidati virostar perché un normale cittadino non vaccinato che si fa il tampone per il lavoro non può entrare in sala a vedere uno spettacolo quando il vaccinato col tampone potrà farlo); ma se in più, dopo due anni, rimane ancora inevasa la richiesta di base, ovvero mostrare i risultati di qualche studio o prova lontanamente scientifica ad hoc sul fatto che in una sala cinematografica o teatrale con tampone all’entrata per tutti (vax e no vax) si creino focolai di Covid, come potremo proseguire negli anni, anzi nei mesi, addirittura nelle settimane a venire?

Se al governo fossero chiari e dicessero che lo “svago” centenario delle sale cineteatrali si può sacrificare e cancellare (tanto c’è lo streaming, bellissimo per carità, ma altra esperienza) ci risparmieremmo tutti questi ridicoli balletti pseudorazionali e questa genuflessione al potere che risulta alla lunga un tantino fanto-tafazziana. Altrimenti rimane l’ipotesi Django. E chi ha visto il film, e su come il protagonista si ribella, sa di cosa parlo.

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