Sugli eventi che ebbero luogo alle 08:10 di quella mattina a Linate si sono versati fiumi di inchiostro. La ricostruzione dei fatti è minuziosa, estremamente dettagliata e non vi sono dubbi o ombre su quanto periti, varie agenzie competenti e magistratura abbiano ormai chiarito: non posso non citare il contributo fondamentale dato dal Com.te Arturo Radini ex ATI (e mio istruttore sul venerabile DC9-30) che con pazienza certosina ha analizzato, tra l’altro, anche le comunicazioni radio intercorse tra i velivoli coinvolti e gli enti di controllo del traffico aereo di Linate.

Volendo fare alcune considerazioni che esulino dai freddi ed inequivocabili risultati dell’inchiesta non posso non fare riferimento al fattore umano che in questa tragedia come in altre è un elemento fondamentale. E’ evidente una analogia con l’incidente di Tenerife del 23 marzo 1977 [in cui persero la vita 583 persone, dopo la collisione tra due aerei passeggeri sulla pista dell’aeroporto di Los Rodeos, ndr], accaduto ben 24 anni prima: erano anni in cui anche le procedure ed i protocolli di comunicazione radio terra-bordo-terra erano ben diversi ed oggi ritenuti, a buona ragione, non sufficientemente sicuri. Gli standard attuali sono stati molto cambiati e resi, con buona ragione, più rigorosi.

Entrambi gli eventi, Linate e Tenerife, sono il classico esempio di una tempesta perfetta, di un “disastro che stava solo cercando un posto dove accadere”: la perfetta materializzazione della Terza Legge di Murphy (“Se c’è una possibilità che varie cose vadano male, quella che può arrecare il danno maggiore sarà la prima a farlo”). Una combinazione letale nella quale il fattore umano gioca come sempre un ruolo decisivo: al di là della tecnologia che dal ’97 al 2001 e ad oggi ha fatto progressi impressionanti, l’elemento umano è sempre la scriminante che fa la differenza tra la vita e la morte in un evento aereonautico ma non solo.

La vexata quaestio per quanto riguarda la mia personale esperienza nel settore aereonautico (ma non solo) è la seguente: quanto siamo disposti a delegare alla tecnologia o addirittura all’intelligenza artificiale nel controllo di funzioni tecniche che noi siamo quasi sempre in grado di ben controllare? Sia a Linate che a Tenerife (ma la casistica è purtroppo molto più ampia) si intreccia il concatenarsi di molti fattori: scarsa visibilità, problemi linguistici e di fonia con conseguenti ma fatali fraitendimenti, assenza per vari motivi di un controllo radar sugli spostamenti degli aereomobili a terra, scarsa familiarità dell’equipaggio con le vie di rullaggio dell’aereoporto.

Se poi a tutto questo va ad aggiungersi qualche errore da parte dell’equipaggio nella navigazione a terra dell’aereomobile in un ambiente con visibilità scarsissima causa avverse condizioni metereologiche, la ricetta per il potenziale disastro è completa.

La mia generazione di piloti è tradizionalmente in favore dell’utilizzo delle ultime risorse tecnologiche per la gestione dell’aereomobile però con l’autorità finale su qualsiasi azione sempre nelle mani del pilota al comando. Anagraficamente appartengo a questa generazione ma ripensando alla tragedia di Linate, a quella di Tenerife ed alla mia personale esperienza, credo di essere arrivato ad una conclusione: dobbiamo eliminare le ultime resistenze ideologiche nei confronti di quella tecnologia che non solo può aiutarci a prevenire disastri come quello di Linate ma può ridurre le possibilità che esso avvengano molto vicino allo zero.

Ricordo che molti anni fa, quando Alitalia era in procinto di effettuare il salto quantico nel campo delle nuove tecnologie applicate al volo con l’ingresso in flotta dell’Airbus 319/320, in qualità di membro della commissione tecnica sindacale che doveva valutare le caratteristiche dei nuovi aereomobili feci molte visite alle strutture addestrative di Air France e British Airways interfacciandomi con istruttori ed ingegneri. Personalmente ritenevo che la condivisione di decisioni vitali nella condotta dell’aereo con un computer (anzi, una serie di computer) fosse esasperata e potenzialmente pericolosa.

Ricordo le parole forse un po’ profetiche di un ingegnere progettista presso un’azienda leader nel settore dei simulatori di volo: mi disse che sarebbe arrivato il giorno in cui i piloti avrebbero lavorato con una realtà virtuale amplificata ed i finestrini della cabina di pilotaggio sarebbero stati sostituiti da schermi televisivi riceventi informazioni da una quantità di diverse fonti. Le immagini disponibili, opportunamente elaborate, avrebbero consentito di volare sempre di giorno e con condizioni meteo ottimali indipendentemente dalle reali condizioni esterne. Ritenni tale scenario del tutto eretico ma lo condivisi con i miei colleghi: il lieve sconcerto che già aleggiava all’idea di doversi affidare ad un joy-stick non fisicamente collegato alle superfici di volo era solo il preludio all’incredibile progresso tecnologico poi effettivamente avvenuto.

L’incidente di Linate è solo uno nella lunga lista degli esempi che potremmo ricordare e rappresenta un monito: quando riduciamo l’apporto delle nuove tecnologie e ci affidiamo quasi unicamente alle valutazioni dell’operatore umano la Terza Legge di Murphy è in agguato. La mia generazione di piloti riteneva che niente potesse sostituire i processi decisionali di un equipaggio perfettamente addestrato ma forse questo punto di vista deve essere progressivamente riconsiderato: se è vero che la “mano” del Comandante Sullenberger fu l’unica cosa che salvò il famoso volo 1549 consentendo un perfetto ammaraggio sul fiume Hudson è altrettanto vero che ogni giorno 26mila aerei volano contemporaneamente intorno al globo in condizioni di separazione e sicurezza mai raggiunte prima. E tutto questo grazie ad una tecnologia inarrestabile nel garantire e confermare il trasporto aereo come il modo in assoluto più sicuro di spostarsi.

Il giorno in cui gli aerei diventeranno dei droni pilotati in remoto da computer è ancora molto lontano ma… è una ipotesi con la quale forse in un futuro non cosi remoto dovremo fare i conti.

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