Cronaca

Sognavano un anno di studio negli Usa: centinaia di studenti restano in Italia. E si scopre il ‘far west delle agenzie’: “Ci hanno traditi. Per ridarci i soldi pretendono silenzio”

Le famiglie avevano pagato fino a 20mila euro per consentire ai figli di fare la quarta liceo in un college a stelle e strisce. Il 31 agosto il Dipartimento di Stato americano ha ufficializzato che non partiranno. I genitori accusano le agenzie che vendevano il "pacchetto all'estero" di mancanza di trasparenza: la comunicazione è arrivata tardi impedendo di trovare per tempo delle alternative. E ora per la restituzione dei soldi c'è chi chiede 10 giorni di tempo e impone una trattenuta. Per l'internazionalismo in arrivo 1 miliardo di fondi del Recovery. Ma il settore che muove minori nell'età scolare non ha alcun controllo pubblico

Ragazzi a mezz’aria che saltano e ridono tra i prati a raso di college da film. Sono il richiamo irresistibile che spinge ogni anno migliaia di famiglie italiane a pagare, quando va bene, l’equivalente di un’utilitaria – dai 10 ai 15mila euro – pur di garantire ai propri figli un viaggio-studio nella Grande America. “Vivi anche tu un anno negli States, in una High School americana!”. Funziona a meraviglia da anni, finché arriva il Covid a far saltare i programmi. Davanti all’imprevisto la superficie di quei laghetti da brochure, rimirati mille volte, riflette anche i lati oscuri di un business poco noto, che sfugge del tutto al controllo pubblico, benché muova minori nell’età dell’obbligo scolastico. Alcune grane vengono a galla, i genitori lamentano poca trasparenza nei costi, sproporzione nei rischi perlopiù a carico del “cliente” e cioè delle famiglie, perfino clausole contrattuali al limite del capestro: se salta il viaggio, per dire, c’è il rimborso di quanto versato, ma solo dietro rinuncia ad ogni rivalsa e perfino a raccontare (e testimoniare) quel sogno diventato incubo. Voci che la logica commerciale esige di tacere, ma un miliardo di ragioni e di altrettanti euro in arrivo per l’internazionalizzazione della scuola consigliano invece di ascoltare.

I viaggi-studio all’estero sono una realtà in crescita anche in Italia. Non parliamo dell’Erasmus e affini; sotto la lente finiscono quelli offerti da agenzie private per consentire ai liceali del quarto anno di studiare in una scuola pubblica americana, sotto l’egida del Dipartimento di Stato Usa. Il programma si chiama “Usa Exchange” e prevede l’ospitalità offerta, del tutto gratuitamente, allo studente straniero nelle “high school” e presso le famiglie che si rendono disponibili senza nulla chiedere, neppure la reciprocità dello scambio. Le agenzie accompagnano i richiedenti nell’iter che parte dall’iscrizione al programma e si concretizza quando avviene il “matching” tra lo studente, la scuola e la famiglia che dipende dalla disponibilità di posti e dalla rispondenza dei requisiti. Al rientro lo studente dovrà sostenere degli esami per dimostrare di non aver perso del tutto il programma scolastico dell’anno; salvo rari casi gli viene riconosciuto valido dalla scuola di provenienza. Di queste agenzie ormai ne esistono una cinquantina in tutta Italia e l’attività che fanno non è da demonizzare perché, agganciandosi al programma americano che ha costi molto più bassi delle rette da Rotary, consente a tanti ragazzi di famiglie normali di accedere a un’esperienza di vita straordinaria che altrimenti gli sarebbe preclusa.

Ma quest’anno non è andata così. Le restrizioni imposte dal Covid hanno fatto chiudere i rubinetti al Dipartimento Usa e centinaia di ragazzi pronti a partire sono rimasti con un visto in mano. Le loro famiglie però lamentano altro. Se la prendono con le agenzie cui si sono rivolte accusandole di aver gestito male la situazione aggravandola ulteriormente per interesse, disorganizzazione o per via di un atteggiamento commercialmente giudicato “spregiudicato”, che mal si addice se il bene trattato non è un’auto ma l’esperienza di un ragazzo e l’investimento di una famiglia.

Nel mirino finiscono tante realtà che si sono gettate su questo business promettente cui il Miur spalancò le porte nel lontano 1994, regolando i soggiorni di studio all’estero, e incentivò poi nel 2013 con una apposita nota (la n.843) nella quale invitava scuole e studenti a darsi da fare per promuovere questa esperienza di “alto valore formativo”. Il volano ha funzionato alla grande: onlus e agenzie private sono spuntate come funghi, oltre 10mila studenti (+38% dal 2016) ogni anno vanno all’estero (dati dell’ultimo rapporto Intercultura). Ma ogni storia ha il suo rovescio.

Per 30 anni il ministero ha omesso di porre anche dei limiti al settore, di istituire controlli sulla qualità dei servizi offerti dalle agenzie e di fare uno screening sugli operatori, lasciando di fatto le famiglie sole a decidere a quali affidarsi, in balia dei rischi che corrono i loro figli. Un buco di norme e responsabilità che va colmato anche in vista dei fondi del Recovery Plan: la terza linea di intervento per la scuola punta al potenziamento della mobilità internazionale e il multilinguismo e vale 1,1 miliardi, che fine faranno? Come saranno coinvolte associazioni e operatori privati? Attraverso quali standard e garanzie? Il caso dello Usa Exchange “saltato” è la classica spia che si accende, il paradigma dei troppi nodi mai sciolti che vengono al pettine.

Le critiche di questi giorni stanno investendo anche le realtà più strutturate come EF Italia, con sede a Milano, cui un genitore sulla pagina web riserva un lapidario: “Si spaccia per azienda seria e professionale, poi per cause di forza maggiore (Covid) non restituiscono i soldi come aveva garantito. LADRI”. Il team che gestisce il social aziendale, che lodevolmente non censura la critica, risponde: “Come indicato anche in altra sede, la invitiamo a contattarci via email all’indirizzo per approfondire la situazione e verificare i dettagli”.

Analoghi scambi affollano la bacheca di Youabroad di Torino, società attiva da 25 anni, oggetto di aperta contestazione. Non si sa quanti siano i ragazzi “rimasti a terra”. Youabrod fa sapere che “i numeri non vengono mai dati per questioni di competition con gli altri operatori”. Alcuni genitori, circa un centinaio, hanno creato un gruppo facebook ad hoc per contarsi e condividere il disagio per la gestione delle famiglie dopo che il Dipartimento di Stato, il 31 di agosto scorso, ha calato la saracinesca sulle partenze. Sostengono di aver ricevuto troppo tardi la comunicazione ufficiale del blocco. Che il rischio fosse in realtà nell’aria da mesi, comunicato loro anche a metà luglio, ma che l’agenzia abbia spinto lo stesso per mantenere l’iscrizione al programma (e dunque il denaro versato) con una vaga promessa di partenze per gli Usa nel secondo semestre 2022 o verso altre mete. Impendendo così, a quanti avessero voluto, di trovare per tempo delle alternative e di avere le risorse economiche necessarie a percorrerle.

Una madre, Rita, lo descrive come un “inganno”: “La cosa più triste – racconta – è vedere la rassegnazione di mia figlia, dopo quasi un anno e mezzo di vita liceale distrutta dal Covid ora anche questa delusione. E purtroppo il quarto anno di liceo non passa”. Fabiana, contatta sul gruppo, non trattiene la delusione: “è un business sulla pelle degli adolescenti e delle famiglie che si impegnano in maniera importante per sostenerli”. C’è chi lamenta anche l’opacità dei costi della quota di partecipazione, spesso senza importi di dettaglio ma in formula “all inclusive”: tassa di iscrizione, ricerca della famiglia, tasse scolastiche, assistenza pratiche, trasferimenti, assicurazione medica etc.

Alcuni genitori hanno deciso di rescindere il contratto che per Youbroad è chiarissimo: se il programma salta, recita, per un “caso fortuito o di forza maggiore” l’agenzia non ha alcuna responsabilità. Ribattono i genitori che di “fortuito” nella pandemia ormai c’è ben poco, che era chiaro fin da giugno/luglio che gli Usa fossero una destinazione ad alto rischio. E che tuttavia la politica commerciale abbia prevalso sull’interesse di minori e famiglie, impedendo loro di riprendersi il denaro per tentare altre strade.

Alcuni ipotizzano una causa collettiva, ma a complicarla è anche quel contratto che li pone tra l’incudine il martello. A chi ha chiesto il rimborso nei giorni scorsi è arrivato un modulo di risoluzione (che il fattoquotidiano.it ha potuto visionare) alquanto singolare. Accorda la restituzione di quanto versato, salvo 350 euro di spese amministrative, “entro 10 giorni”. Ed è già un tempo ritenuto eccessivo dai genitori, che senza quella somma a disposizione “indebitamente trattenuta” non hanno potuto aderire a proposte alternative. La restituzione, si legge nella comunicazione, avverrà solo a fronte della “rinuncia a qualsivoglia pretesa connessa e/o collegata al contratto di cui sopra, con seguente liberazione delle parti da ogni obbligazione ad esso relativa, nonché l’impegno a mantenere il più stretto riserbo sul contenuto del presente documento”. In pratica, contestano i genitori, “ti restituiscono il tuo denaro solo se ti impegni a non fargli causa e a evitargli cattiva pubblicità”.

La società, dal canto suo, ribadisce la correttezza del proprio operato. Riferisce che sin dal 25 gennaio ha inviato una newsletter settimanale alle famiglie proprio per informarle e aggiornarle dell’andamento della pandemia negli Usa, cui hanno fatto seguito telefonate mirate volte a sondare ipotesi alternative e volontà di confermare il programma fino all’ultimo. “Anche noi – riferiscono da Youabroad – siamo stati danneggiati da questo blocco. In 25 anni non si era mai verificata una situazione simile, ma ci siamo rimboccati le maniche per garantire le partenze e offrire alternative adeguate ai ragazzi cui teniamo su tutto”.

Mancando un contratto quadro di settore, anche la gestione delle ripercussioni di uno svincolo diverge da agenzie ad agenzia. “Non solo abbiamo restituito tutto quanto hanno versato le famiglie, senza penali o spese di alcun genere ed entro sette giorni, ma abbiamo deciso anche di farci carico dei costi del visto normalmente a carico delle famiglie”, fanno sapere ad esempio da Wep, agenzia nata in Belgio negli anni Ottanta e dal 1996 anche in Italia, con cinque sedi che si è trovata per la prima volta quest’anno con 71 famiglie rimaste a terra. Dunque l’approccio in caso di “unplacement” può essere molto diverso, più incline alla tutela delle famiglie “clienti” o della società.

Saranno probabilmente i giudici a stabilire torti e ragioni dei casi controversi. Ma tocca al ministero dell’Istruzione battere un colpo, dare regole al settore, individuare le buone pratiche, requisiti di accreditamento per gli operatori. L’imprevisto che ha appena trasformato in incubo il sogno di tante famiglie è forse l’occasione buona per smettere di girarsi dall’altra parte, per attivare forme di vigilanza e controllo che non ci sono mai state. Necessarie, per altro, a usare al meglio i fondi del Recovery in arrivo.

Aggiornato il 13 ottobre 2021
Riceviamo e pubblichiamo nota dell’associazione di categoria Ialca:

“Il 10 settembre 2021 il vostro giornale ha pubblicato l’articolo: “Sognavano un anno di studio negli Usa: centinaia di studenti restano in Italia. E si scopre il ‘far west delle agenzie’: Ci hanno traditi. Per ridarci i soldi pretendono silenzio” a firma di Thomas Mackinson. L’argomento è quello degli anni scolastici in USA e le pratiche scorrette tenute dalle agenzie organizzatrici durante l’emergenza pandemica. Già dal titolo si dà una rappresentazione fortemente negativa dell’intera categoria delle agenzie specializzate nel settore dei viaggi studio all’estero. L’articolo è balzato all’attenzione della IALCA, Italian Association of Language Consultants and Agents, (www.ialca.it), associazione affiliata a FIAVET, fondata nel 1997, associazione di agenzie specializzate nell’organizzazione dei viaggi e dei soggiorni studio all’estero. Le agenzie IALCA operano secondo severi canoni di professionalità e legalità, garantendo elevati standard e rispettando un rigoroso codice etico interno. IALCA rileva come l’articolo getti grave discredito sull’intera categoria. Prova ne è la considerazione: “Le critiche di questi giorni stanno investendo anche le realtà più strutturate”, da cui il pubblico può desumere che, se anche le realtà “più strutturate” sono inaffidabili, a maggior ragione lo sono le realtà più piccole. Il che non è vero, anzi spesso le piccole agenzie offrono altissimi standard di qualità per la maggiore attenzione a ogni singolo cliente. L’articolo fa riferimento in modo indiscriminato a condotte connotate da “inganno”, e che quello dei soggiorni di studio sarebbe “un business sulla pelle degli adolescenti e delle famiglie che si impegnano in maniera importante per sostenerli”, senza che l’autore renda chiaro se si riferisca a una particolare agenzia o alla generalità di esse. IALCA precisa che il settore è invece caratterizzato da un’altissima professionalità: le agenzie specializzate sono gestite da professionisti di notevole esperienza specifica, che si attengono a tutte le norme di legge e alle buone pratiche commerciali, offrendo un servizio di eccellenza. L’articolo, attribuendo al settore in generale singoli episodi di cattive pratiche tenute da pochi, produce un danno enorme agli operatori che agiscono con trasparenza e professionalità, specialmente in un periodo drammaticamente difficile per il comparto. L’emergenza sanitaria, infatti, ha fatto sì che migliaia di studenti, dopo avere prenotato un soggiorno, siano stati costretti a restare a casa, con tutta la comprensibile frustrazione per non avere potuto dare vita alla agognata esperienza formativa. Ma sono state proprio le agenzie più diligenti e professionali, quali quelle appartenenti a IALCA, a subirne i danni maggiori, senza mancare di prestare assistenza ai loro clienti”.

La nostra replica

L’articolo riporta specifiche e circostanziate critiche alla correttezza e trasparenza di alcuni grandi player del settore dei viaggi-studio all’estero così come sono state sollevate dai loro stessi clienti. Nonché la risposta delle agenzie citate circa condotte difformi alle aspettative e agli impegni assunti. Riporta anche esempi virtuosi, a riprova che non c’è alcuna generalizzazione. Sorprende invece che nella Vostra risposta, questa sì improntata a una generica difesa della categoria, manchi un cenno anche minimo alle difficoltà in cui si sono trovate le famiglie.

TM