Il ritorno dei Talebani in Afghanistan ha preso tutti in contropiede: solo un mese fa appariva inimmaginabile che dopo vent’anni di occupazione e centinaia di miliardi di dollari di aiuti, il governo e l’esercito afghano capitolassero senza opporre resistenza. Adesso che l’ultimo soldato occidentale ha lasciato il Paese e i Talebani ne sono nuovamente al timone, ci si interroga sul suo futuro. L’Afghanistan del 2021 sarà simile a quello del 1996, un califfato islamico dove il tempo si è fermato al medioevo, oppure la stessa abilità che i Talebani hanno mostrato nel finanziare la propria guerra per due decenni sarà usata anche per modernizzare lo Stato? È molto improbabile che l’economia del nuovo emirato sia strutturata come in passato. Dal 1996 al 2001 era L’Isi, l’intelligence pakistana, a pagare gli stipendi della pubblica amministrazione afghana: il Paese era quasi totalmente dipendente dal denaro altrui, incluso l’”affitto” che Osama bin Laden pagava affinché al Qaeda venisse “ospitata” nel territorio. Dopo la disfatta del 2001, i talebani hanno imparato la lezione e si sono organizzati per autofinanziarsi. In che modo? Attingendo alle risorse dei territori che sono riusciti a riconquistare, incentivandole e ingraziandosi i favori di ricchi sponsor, dai quali, nel 2020, hanno ricevuto intorno ai 500 milioni di dollari.

A giocare in loro favore, nell’avanzata trionfale di agosto, è stata la corruzione rampante del governo afghano sponsorizzato da Washington. Vessata dalle tangenti applicate a qualsiasi attività pubblica e privata, la popolazione delle zone tribali e delle campagne ha cercato protezione proprio nei Talebani: questi, da parte loro, non hanno più bruciato i campi di papavero ma incoraggiato e promosso la creazione dell’industria della trasformazione dell’oppio in eroina. Una mossa molto scaltra. Nel 2020 i narco-talebani tassavano un giro d’affari stimato tra 1,5 e 3 miliardi di dollari l’anno. Il modello è quello dell’Isis: agire come governo legittimo del Paese assumendosi la responsabilità della sicurezza del territorio e offrendo servizi in cambio delle tasse. Tasse che sono state applicate con successo a qualsiasi attività economica e commerciale che si svolgeva nei territori da loro controllati, e cioè principalmente nelle zone tribali e nelle campagne, lontano dalle città. Sono anni che i Talebani gestiscono queste regioni, e dunque è qui che la caduta del governo di Kabul non farà una grande differenza.

Diversa la situazione nelle città, dove si è osservata gran parte della trasformazione della società afghana e dove si è registrata quasi tutta la crescita economica degli ultimi vent’anni. Per farsi un’idea: nel 2021 l’economia nazionale è cinque volte quella del 2001. L’elettricità è ovunque, esistono gli smartphone e l’accesso a Internet. È nelle città, dove le donne vanno a scuola e lavorano, che la modernizzazione del paese ha preso piede, ed è nelle città che la transizione verso il califfato talebano sarà più problematica. Le prime vittime della capitolazione del governo afgano sono state, e continueranno a essere, gli abitanti delle zone urbane. Il nuovo modello economico talebano, infatti, anche se applicato in toto, non potrà mai rimpiazzare quello di vent’anni fa: allora più di tre quarti della spesa pubblica annuale, 11 miliardi di dollari, era coperta dagli aiuti stranieri. I Talebani non dispongono di questo tipo di entrate: secondo un’indagine della Bbc, nel 2018, il loro prodotto interno lordo era di 1,5 miliardi di dollari. Nè hanno sponsor abbastanza ricchi o possono accedere ai nove miliardi di dollari di riserve congelati all’estero. Ciò significa che l’economia delle città subirà una contrazione infinitamente maggiore di quella di altre zone. Secondo un’analisi di Fitch, l’economia afgana si ridurrà del 10- 20 per cento nei prossimi mesi, e l’impatto si sentirà principalmente nei grandi centri.

I primi sentori del crollo sono già evidenti. La dipendenza dell’economia urbana dal contante straniero, che si è prosciugato in poche settimane, ha fatto piombare le banche in una crisi di liquidità. Nelle campagne e nelle zone tribali – dove il sistema di scambio poggia ancora sull’Hawala, il sistema bancario informale – la situazione è ben diversa. Senza sufficiente contante in circolazione, l’inflazione è già ripartita nei mercati cittadini ad un ritmo sostenuto. In poco tempo spazzerà via il benessere ed il progresso conquistato negli ultimi vent’anni e costringerà la popolazione urbana a tornare ad un’economia di sussistenza, simile a quella del 2001. E forse proprio questa è la speranza segreta dei Talebani. È nelle città infatti che potrebbe formarsi l’unica vera opposizione al loro regime, che – anche se fosse davvero moderato rispetto a quello del mullah Omar – è pur sempre inaccettabile per chi desidera vivere nella modernità. E per stroncare questo movimento di rivolta sul nascere, per tarpagli le ali, la strategia migliore è costringere la popolazione urbana a preoccuparsi quotidianamente del prossimo pasto, impoverirla al punto da pensare solo ai bisogni primari: cibarsi, coprirsi, avere un tetto sulla testa.

Tra un anno, nel nuovo califfato afghano la popolazione urbana potrebbe vivere nella povertà. Quella delle zone tribali, invece, specialmente quelle che controllano le miniere di terre rare ed altri minerali preziosi, che fanno gola ai cinesi, potrebbero vivere bene. Anche i coltivatori di papavero ed i narco-commercianti se la passeranno bene. Dopo aver siglato accordi commerciali con la Cina, la Russia ed il Pakistan, i nuovi Talebani ricominceranno a foraggiare l’avvento della federazione islamica dei califfati, il sogno del Mullah Omar e del suo amico Osama bin Laden. In fondo, perché no? Il lupo perde il pelo ma non il vizio.

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