Il caso afghano è certamente un guazzabuglio geopolitico che lascio volentieri agli esperti. Tuttavia esso solleva alcune questioni general-generiche sul rapporto tra guerra, diritti umani, libertà, differenze culturali. Gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati dall’affievolirsi del pensiero critico sull’interventismo militare statunitense, accompagnato da un sempre maggiore atlantismo acritico. Le guerra del Golfo, dei Balcani, del Kosovo e poi la ‘War on terror’ dopo l’11 settembre avevano prodotto una riflessione robusta contro la violazione dei principi di diritto internazionale che era stata sistematicamente perpetrata dall’Occidente.

L’Italia ha fatto la sua parte nella sporca guerra contro l’”asse del male”, appoggiando iniziative che erano in totale violazione della Carta Onu. Tuttavia, quella riflessione aveva prodotto anche una certa polarizzazione manichea, arrivando a tacciare sempre e comunque, in nome di un relativismo un po’ piatto, i diritti umani come strumento dell’imperialismo culturale occidentale. Soprattutto la sinistra radicale, nel criticare il cosiddetto ‘interventismo umanitario’ – ossimorica espressione riservata a coloro che intendevano le bombe, le uccisioni indiscriminate di civili, le guerre di aggressione, le renditions, i mietitori di Obama, Guantanamo e altri orrori quali viatici per l’affermazione di diritti e democrazia – ha buttato il bambino con l’acqua sporca.

A distanza di due decenni, di fronte al conclamato fallimento di quell’esperienza che effettivamente si ammantava di umanitarismo mentre devastava territori e sterminava civili (si ricordi lo Shadow Summit for Afghan Women, sponsorizzato da Amnesty International, che aveva come manifesto delle donne con il burqa e la scritta “Nato: Keep the Progress Going”), ritorna in queste ore quel tic ideologico di certa parte dell’opinione pubblica. La tesi è che i diritti umani siano un’invenzione occidentale tout court, grimaldello imperialistico rispetto al genuino consenso dei Talebani nella popolazione.

Si dice che i Talebani godano del consenso degli afghani. Discorsi di una estrema povertà concettuale. Intanto perché il tema del consenso solleva proprio la questione dei diritti: come si può esprimere consenso se si è (ammettiamo) in una condizione di subalternità dovuta all’assenza di diritti civili, politici, sociali economici e culturali? Se non si ha diritto all’istruzione, alla sanità, al pluralismo dell’informazione, anche il diritto di esprimere il proprio parere con il voto o nell’agone pubblico è minato nelle sue fondamenta. I diritti umani sono proprio quel ‘pacchetto’ che sta o cade a seconda che le varie categorie che lo compongono vengano considerate come legate orizzontalmente, non scindibili, non gerarchicamente ordinate.

Ma poi c’è la questione dell’origine ‘occidentale’ dei diritti umani, talmente arata da rendere un po’ naïf chi la ripeta oggi così, sine glossa. Difatti il punto non è l’origine (la cosiddetta fallacia genetica), ma l’uso e la diffusione dei diritti come strumenti di lotta all’oppressione. In questo senso, esistono fenomeni di transculturazione o vernacolarizzazione dei diritti, che peraltro presuppongono una certa ‘agency’ dei soggetti: come si fa ad aderire all’idea di diritti come strumenti di emancipazione se non si hanno diritti, senza capacità di ‘parlare’? Di fronte a questo, il rischio del paternalismo è sempre dietro l’angolo, e tuttavia occorre pensare a un modo per interpellare l’Altro, chiedergli cosa vuole davvero.

Anche nel puzzle afghano il tema del consenso e della voce degli oppressi rimane il tema centrale. Nei miei scritti (penso a Diritti umani e relativismo, Laterza) e nelle mie lezioni racconto di quando quegli esponenti di relativismo naïf, maschi bianchi occidentali benestanti eterosessuali, cercavano di convincere le donne africane a rinunciare ai diritti umani perché strumenti di imperialismo culturale e politico. E racconto di come quelle donne, certo educate anche nel contesto della cultura occidentale (ma non si può ridurre la loro identità multipla solo a quello) rispondevano dicendo che non ne avevano nessuna intenzione, e che avrebbero tentato di tradurre i diritti umani in strumenti di emancipazione. Per non dire di tutto il lavoro delle associazioni dal basso nel tentativo di favorire l’empowerment dei soggetti.

Oggi l’errore che non si deve fare è liquidare di nuovo i diritti umani solo perché l’Occidente li ha usati per giustificare delle guerre di aggressione. Al contrario, l’adesione al modello dei diritti umani significa anche prendere quel ‘pacchetto’ e rivoltarlo contro i suoi presunti ‘inventori’ occidentali.

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