Comunque lo si prenda il tema è estremamente delicato. Classico caso in cui confliggono valori a cui è difficile assegnare una gerarchia precisa. Lotta alla pedo pornografia e tutela della privacy. L’Unione europea si appresta a varare norme che consentiranno di scandagliare e-mail e messaggi delle chat per pescare eventuali materiali sospetti. Ora Apple valuta l’introduzione di un software battezzato “NeuralMatch” che esamini automaticamente i materiali che si trovano sui suoi i-phone, pc e tablet e, in caso di risultanze sospette, le sottoponga ad una seconda verifica, questa volta di un essere umano che valuterà se segnalare il materiale alle forze dell’ordine. L’operazione dovrebbe interessare inizialmente i soli Stati Uniti per poi estendersi su scala globale. I governi plaudono e caldeggiano l’iniziativa e invitano Google, Whatsapp (di proprietà di Facebook), Telegram etc a fare altrettanto. Ma le voci critiche non mancano. La stessa Whatsapp ha affermato di essere contraria ad un’attività di controllo generalizzato sui contenuti dei suoi utenti.

Edward Snowden, ex tecnico della Cia e della National Security Agency che 2013 rese pubblici sistemi governativi di sorveglianza di massa, ha duramente criticato su Twitter la decisione. Il messaggio di Snowden è chiaro: “Non importa quanto sia bene intenzionata Apple, con questo sistema la società sta implementando una sorveglianza di massa in tutto il mondo. Se possono cercare materiale pedo pornografico oggi, possono cercare qualsiasi cosa domani. Hanno trasformato un trilione di dollari di dispositivi in ​​iNarcs e senza chiedere il permesso”

Simili le parole di Jennifer Granick, consulente per la cyber security dell’American Civil Libery Union, ha dichiarato: «Sebbene mossa da buoni fini, Apple ha di fatto messo in piedi un’infrastruttura che, in cattive mani, può facilmente essere sovvertita creando un sistema di sorveglianza globale di tutte le nostre comunicazioni». Il rischio principale principale è che, una volta aperta la porta, abbiano la possibilità di passarci anche soggetti non graditi, criminali informatici inclusi ma non solo. Esempio tipico: l’algoritmo concepito per intercettare contenuti pedopornografici potrebbe essere facilmente adattato da un governo per cercare invece utenti che esprimono orientamenti politici non graditi.

Ieri il board del Financial Times ha dedicato un editoriale al tema non nascondendo, a sua volta, una certa preoccupazione per le possibili ricadute a lungo termine della mossa di Apple. Bisogna però anche essere realisti, non che questo, almeno in una certa misura, non accada o non possa accadere già oggi. Il caso Pegasus, è solo l’ultimo esempio di lunga una serie di indebite intrusioni in apparecchiature elettroniche e violazioni delle più basilari regole della privacy. A dirla tutta, già oggi con competenze e strumenti adatti, si potrebbero inserire contenuti pedopornografici nello smartphones di una vittima ignara e poi far partire una denuncia a suo carico. L’algoritmo di Apple potrebbe facilitare ulteriormente certe azioni ma non rivoluziona le carte in tavola.

Ecco perché Stefano Mele, avvocato esperto di cyber sicurezza e presidente della Commissione sicurezza cibernetica del comitato atlantico italiano, vede nella mossa di Apple non solo rischi ma anche opportunità. “Ci sono indubbiamente delle difficoltà sia tecniche sia giuridiche, spiega Mele a IlFattoQuotidiano.it, che però possono essere affrontate e risolte ed Apple ha le competenze per farlo“. In particolare Mele fa riferimento ai rischi di manipolazione dell’algoritmo, in primis da attori statali, e al rispetto dei principi guida delle normative sulla privacy. “La sfida per Apple è quella di innovare salvaguardando un equilibrio con i principi della privacy, non è semplice ma è possibile. Del resto i progressi tecnologici offrono nuovi strumenti per la lotta al crimine che sarebbe assurdo non sfruttare”.

Apple fa della tutela della privacy degli utenti uno dei sui vanti. Su questo puntano anche le sue ultime campagne pubblicitarie. Nel 2016 il gruppo creato da Steve Jobs, fu protagonista di una dura battaglia legale con l’Fbi che chiedeva di avere accesso ai contenuti dell’iphone di uno dei due autori della strage di San Bernardino, in California, avvenuta l’anno prima. Qualcosa di simile accadde nel 2019 in relazione alla strage di Orlando in Florida. La questione di San Bernardino si risolse peraltro dopo che l’Fbi annunciò di essere comunque riuscita ad avere accesso ai dati di interesse investigativo contenuti nell’i-phone anche senza il supporto della casa madre.

Il fatto che ora Apple cambi rotta e che, soprattutto, lo faccia in modo autonomo, smarcandosi dagli altri attori primari del web, lascia supporre che ci siano state intense interlocuzioni e, forse, pressioni, tra l’azienda e il governo Usa. Secondo alcune ricostruzioni Apple avrebbe ceduto da una parte in cambio di maggiori rassicurazioni su altre forme di tutela della privacy come la protezione di dati di utenti di Hong Kong o altre aree sensibili. Alla Casa Bianca gli strumenti di pressione non mancano, si pensi solo al costante flusso di innovazioni tecnologiche che dal Pentagono e dai centri ricerca pubblica finiscono nei laboratori Apple. Praticamente tutti i componenti di un i-phone sono stati ideati fuori dall’azienda della mela morsicata.

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