It’s coming home? Dipende cosa s’intende. Perché se la finale sarà tra le Nazionali di due Paesi che a livello storico rappresentano l’alfa e l’omega di un gioco che vanta origini antichissime (la sferomachia greca e l’harpastum romano ne sono gli antesignani), è a Firenze, intorno alla metà del Quattrocento, che furono stabilite le basi del calcio moderno, comprendenti anche pugilato e lotta, e quindi “tendente” al rugby.

Ciò nonostante, il calcio praticato da Insigne e compagni, in terra d’Inghilterra senza dubbio è stato normato e razionalizzato a metà dell’Ottocento, ma è nato in riva all’Arno. Talvolta “sopra”. Infatti il 10 gennaio 1490 “il fiume Arno diaccio sì forte che vi si fece sopra al Calcio fra Ponte Vecchio e Santa Trinita” ci dice il diarista Luca Landucci in una cronaca dell’epoca. Il calcio – anzi, il chalcio in livrea – era una tradizione radicatissima; le prime memorie risalgono al 1460 e poi proseguono praticamente fino ai giorni nostri.

Un po’ come accadrà domenica sera a Wembley, le squadre in campo erano due, con casacche – solitamente di raso, elegantemente rifinite – dai colori sgargianti: dal rosa al bianco, dall’oro all’argento, dal giallo e turchino al bianco e incarnato (pesca), dal rosso al verde. Le squadre erano disposte sul terreno di gioco – solitamente una piazza o un grande prato (la più nota delle partite fu disputata il 17 febbraio 1530 in piazza Santa Croce durante l’assedio di Firenze per opera delle truppe imperiali di Carlo V) – come gli eserciti sul campo di battaglia: vi erano infatti cinque “sconciatori” (mediani), sette “datori indietro“, cioè portieri, e quattro “innanzi” , cioè terzini) e poi 15 “corridori” (cioè attaccanti); la “caccia” (cioè la porta) era estesa lungo tutto il campo in larghezza e gli scontri erano diretti, senza troppa pretattica, né schemi. L’importate era impossessarsi della palla e, attraverso una serie di passaggi (con le mani o con i piedi era lo stesso), superare la linea dei “datori indietro”.

Un po’ come accade nei grandi stadi di tutto il mondo, alle partite assisteva un pubblico vociante e assolutamente schierato per l’una o l’altra formazione dei “giuocatori”. I quali non erano atleti formati proprio per questo impegno, bensì i giovani rampolli della nobiltà fiorentina, per i quali affrontarsi sul terreno di gioco era un onore oltre che una prova di coraggio.

Sull’argomento vi è una bibliografia sterminata e uno dei principali studiosi della materia, Luciano Artusi (già direttore del Corte del Calcio Storico Fiorentino), in vari libri ha sottolineato che perfino dei componenti della famiglia dei Medici giocarono al chalcio; tanto per fare un esempio, don Pietro de’ Medici, il più giovane dei figli di Cosimo I ed Eleonora di Toledo, alla fine della tenzone tenutasi il 4 marzo del 1576, fu definito “giovane sfrenato e licenzioso”. Tuttavia nei secoli la livrea di raso la indossarono Piero, figlio di Lorenzo il Magnifico, Lorenzo duca di Urbino e Alessandro duca di Firenze, Cosimo I e suo figlio Francesco I granduchi di Toscana, Lorenzo e Francesco figli di Ferdinando I, Giovan Carlo e Mattias figli di Cosimo II, il futuro granduca Cosimo III e suo fratello Francesco Maria; senza contare i futuri papi: Giulio e Alessandro de’ Medici, rispettivamente Clemente VII e Leone XI al soglio pontificio.

Solitamente si giocava nel periodo di Carnevale o per particolari occasioni di festa, come il matrimonio tra il gran principe Ferdinando de’ Medici e Violante di Baviera (nel 1688) e tre anni più tardi per il matrimonio di Annamaria Luisa de’ Medici (elettrice Palatina) con Giovanni Guglielmo von der Pfalz-Neuburg. Ma alla fine, come accade ancora oggi là dove vi è un po’ di spazio, una palla e la voglia di divertirsi, ogni occasione era buona per giocare al calcio.

Molti di queste sfide sono state anche dipinte da artisti dell’epoca e rappresentano la testimonianza visiva di un passione sfrenata tutta fiorentina che poi è rimbalzata oltre Manica ed è tornata in Penisola diventando sport nazionale. Queste opere – dipinti, affreschi disegni, arazzi – portano la firma, tra gli altri, di Stradano, Callot, Baccio del Bianco, Guidotti e molti altri.

Da quasi un secolo, l’antico gioco del calcio in livrea è tornato come rievocazione storica e si chiama calcio storico fiorentino. Tre volte l’anno – Covid e beghe cittadine permettendo – le squadre dei quartieri storici di Fiorenza si contendono – per finta – una bianca vitella on gli zoccoli dorati e le corna inghirlandate; non è un coppa “con gli orecchioni”, è vero, ma è pur sempre un simbolo di vittoria; e più che nobili di Fiorenza, quelli che scendono sul “sabbione” di piazza Santa Croce misurandosi nell’antico gioco sono dei gladiatori 3.0, alla ricerca di emozioni forti, dell’applauso, della gloria. Un po’ come i ragazzi di Mancini che lunedì vogliono svegliarsi campioni d’Europa.

E a proposito del confronto tra Italia e Inghilterra, gioverà ricordare che nei secoli l’antico gioco del chalcio di Fiorenza era apprezzato anche dai forestieri. Uno di questi – il sacerdote cattolico, viaggiatore ed educatore di nobili inglesi Richard Lassels – aveva origini misteriose, ma venne per cinque volte in Italia e nel 1670 diede alle stampe a Parigi The Voyage of Italy, in cui, tra le tante amenità riportate, descrisse anche il gioco fiorentino. Lo definì “uno degli spassi, ne’ quali il popolo Fiorentino passa il tempo gioiosamente…”. Al fischio finale della partita di domenica sera tutti ci auguriamo che quella gioia si trasformi in tripudio: in fine dei conti di chalcio ce ne intendiamo di più.

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