di Alessandro Rubin

Se negli ultimi venti anni ogni sforzo di lotta all’evasione fiscale è essenzialmente fallito, da un lato è perché nessuna forza politica ha veramente voluto sostenere l’onere di tale sforzo; e dall’altro perché il problema è sempre stato ritenuto dai tecnici prettamente economico. L’evasione italiana è invece diversa dal tipo di evasione degli altri grandi paesi occidentali perché ha anche profonde e complesse radici culturali che non possono essere derubricate a mere sfumature secondarie.

Dopo Tangentopoli, con cui è venuto a galla il segreto di Pulcinella (che i vertici politici, amministrativi ed industriali dello Stato erano perlopiù ladri e corrotti), la popolazione italiana ha iniziato a domandarsi perché avrebbe dovuto seguire le regole, visto che anche chi le scriveva poi non le seguiva. L’evasione che ha caratterizzato il post-Tangentopoli era un’evasione di ribellione, di rabbia, di disinteresse e di deresponsabilizzazione: lo si faceva anche prima, ma si sapeva che era in un qualche modo sbagliato. Come ha varie volte sostenuto persino Davigo (che di Mani Pulite ne è stato protagonista), dopo Tangentopoli quello che è mancato è stata la vergogna di essere beccati.

A chi oggi dice “se le tasse fossero più basse, io le pagherei” io non credo neanche un po’; lo dicono solo per non sentirsi in colpa. Le tasse verrebbero evase anche se dimezzate perché sono almeno quindici anni che lo Stato è descritto e percepito (a torto o a ragione) come un parassita che mette le mani nella tasche dei cittadini e che questi (che sono tutti onesti) hanno il diritto e dovere di difendersi. Non è un caso che si parli di “evasione per difesa” e si invochi lo sciopero fiscale, una metafora che denota come alla base esista un non troppo celato sentimento di protesta, ingiustizia e sconforto. Nulla di economico qui, solo sentimenti. Tanto più che chi paga tante tasse per colpa dei furbetti incolpa lo Stato per le tasse troppo alte e non i furbi che non le pagano. È completamente irrazionale.

Un altro aspetto culturale dell’evasione è legato alla scarsa istruzione della popolazione (il cui 50% ha raggiunto al massimo la terza media) che non solo si riflette in una irrazionale diffidenza e inerzia rispetto al progresso e alla digitalizzazione (per cui la gente continua a fare lunghe file in posta e in banca nonostante esistano le app sul cellulare), ma anche nell’incapacità di analizzare la realtà e comprendere appieno le conseguenze delle proprie azioni (come il fatto che, evadendo – una tra tante – l’Iva, la scuola in cui va il proprio figlio o l’ospedale in cui è ricoverato il proprio genitore rimarrà alla fine senza soldi e mezzi).

È dalla rabbia e dalla volontà di fottere lo Stato che ci sta fottendo che nasce quel sentimento di solidarietà tutto italiano che ti porta a chiedere al meccanico “un favore” per sistemare l’auto, a suggerire ai tuoi amici un idraulico perché fa “buoni prezzi”, a chiedere al dentista “un aiuto” perché l’apparecchio del figlio è troppo caro, ad offrire ad una famiglia in difficoltà una fattura “scontata” perché se no non potrebbero permettersi quel bene, ad avere comprensione di quel barista che non batte uno scontrino perché gli affitti sono cari, a lamentarci se ci multano per una fattura non fatta perché c’è sempre qualcuno che evade più di noi e a personalizzare gli utili ma condividere i debiti (in primis quello pubblico) .

Ogni cura economica intentata finora contro l’evasione ha quindi avuto la stessa efficacia che avrebbe un antibiotico su un’infezione virale: di certo aiuta, ma non è determinante alla salvezza del malato. Occorre che lo Stato ripari quel patto sociale che si è rotto tanti anni fa, quando la sua pubblica amministrazione ha smesso di erogare quei servizi per cui era stata creata, per non lasciare più alcun alibi ai suoi cittadini. In questa guerra la carota può essere anche più decisiva del bastone.

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