“Il legislatore non ha fornito le norme necessarie” a far funzionare la riscossione. E “se la riscossione non funziona, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza non potranno mai sconfiggere l’evasione fiscale“. L’11 giugno il numero uno delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, ha riassunto così la condizione di impotenza del fisco nel farsi pagare il dovuto. Ed è proprio evocando la necessità di una riforma che il premier Mario Draghi a marzo aveva spiegato la scelta di inserire nel primo provvedimento del suo governo un condono delle vecchie cartelle fino a 5mila euro datate 2000-2010. “Lo Stato non ha funzionato, bisogna cambiare qualcosa”, aveva detto. Dunque il favore ai contribuenti infedeli – con un costo stimato di 666 milioni per le casse pubbliche – è stato accompagnato dalla promessa che entro 60 giorni dall’entrata in vigora del decreto Sostegni (il 23 marzo) il Tesoro avrebbe trasmesso alle Camere una relazione con i criteri “per procedere alla revisione del meccanismo di controllo e di discarico dei crediti non riscossi”. Ma di giorni ne sono passati più di 90 e quel documento ancora non c’è. In compenso, la Corte dei Conti ha alzato un cartellino rosso rispetto alla tentazione che traspariva dal decreto: limitarsi a prevedere, dopo un certo numero di anni, la cancellazione automatica dei ruoli non riscossi. L’ennesimo liberi tutti.

L'”assoluta inadeguatezza” del sistema che recupera solo il 13% del dovuto – Il ritardo accumulato da via XX Settembre mal si concilia con l’obiettivo, inserito nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, di aggredire con decisione l’evasione fiscale assumendo altri 2mila specialisti per rimediare al blocco del turnover e utilizzando l’intelligenza artificiale e il machine learning per l’analisi dei dati. Perché scovare chi ha pendenze con l’erario – come si punta a fare con il nuovo redditometro sottoposto in questi giorni a consultazione pubblica – serve a poco se poi l’Agenzia della riscossione, braccio delle Entrate, non riesce a incassare i crediti accertati. Il punto, dunque, è cambiare le norme che oggi impediscono all’ente di fare il suo lavoro, con il risultato che negli ultimi vent’anni è stato recuperato solo il 13% del dovuto e il carico residuo al 31 dicembre 2020 ha raggiunto i 227 milioni di singoli crediti per un valore monstre di 999,1 miliardi. Di cui 152 in capo a soggetti falliti, 133 a defunti o ditte cessate, 115 a nullatenenti e 445 riferiti a contribuenti nei cui confronti qualche azione è stata tentata ma senza successo. Una “assoluta inadeguatezza“, secondo la Corte dei Conti, che si manifesta soprattutto per i ruoli di importo elevato, quelli potenzialmente più ghiotti per le casse pubbliche.

L’ipotesi del Tesoro: cancellazione automatica dopo cinque anni – Il ministero guidato da Daniele Franco, a dire il vero, una strada per uscirne l’aveva individuata. Nelle prime bozze del decreto Sostegni era previsto che, una volta portato a termine lo stralcio delle vecchie cartelle, sarebbe scattata la cancellazione automatica di ogni ruolo fermo da più di cinque anni. Senza nemmeno una valutazione della loro residua esigibilità. “Un condono permanente”, aveva commentato Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze che a fine anni Novanta creò le agenzie fiscali. Di lì i maldipancia di Leu e di una frangia del Movimento 5 Stelle e la decisione di ritoccare i termini del condono, riducendo l’orizzonte temporale dello stralcio e prevedendo un tetto di 30mila euro di reddito Irpef, e in più rinviare ogni decisione sulla riforma alla relazione del ministero dell’Economia. Che avrebbe dovuto arrivare entro fine maggio.

Il cartellino rosso della Corte dei Conti – Che cosa è successo nel frattempo? Dalla Corte dei Conti, che da subito aveva censurato il nuovo condono facendo notare come produca “disorientamento e amarezza per coloro che tempestivamente adempiono e ulteriore spinta a sottrarsi al pagamento spontaneo per molti altri”, è arrivato un altolà. Nel Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica datato 28 maggio la magistratura contabile ha ribadito che “quale che sia la effettiva motivazione della cancellazione” di quelle cartelle, “la sua adozione dovrebbe necessariamente comportare una profonda revisione del modello organizzativo e procedimentale finora adottato per la riscossione coattiva dei crediti pubblici”. Ma al contrario il riferimento a “criteri per procedere alla revisione del meccanismo di controllo e di discarico dei crediti non riscossi” secondo la Corte “lascia trasparire l’obiettivo di realizzare, sia per i carichi ancora in essere, sia per quelli futuri, un sistema di discarico automatico delle quote non riscosse dopo il decorso di un determinato periodo dalla loro presa in carico, nonché una metodologia di gestione dei carichi affidati basata su criteri selettivi”. Una eventualità “da scongiurare“, secondo l’organo di controllo, perché “altererebbe radicalmente il sistema di gestione dei tributi nel quale la riscossione coattiva delle somme ancora dovute costituisce complemento imprescindibile“. Perché “non appare compatibile con il corretto funzionamento del sistema che gli esiti dei controlli automatici e dei controlli sostanziali delle posizioni fiscali non comportino poi concrete ed efficaci azioni per la loro riscossione, quale che sia l’importo degli stessi”.

I suggerimenti per la riforma: un’agenzia autonoma e meno limiti a pignoramenti ed espropri – No alla cancellazione automatica dopo un certo numero di anni, dunque. Quel che serve, per la Corte, è “un’ampia e organica revisione dell’intero sistema” per “potenziare l’efficienza della struttura amministrativa e tutelare adeguatamente l’interesse dello Stato“. Seguono diversi suggerimenti sia sul fronte organizzativo sia su quello delle procedure: istituzione di un’agenzia autonoma per la riscossione a cui far partecipare anche l’Inps, superamento delle carenze di personale, aggiornamento del sistema informatico “obsoleto”, superamento dell’aggio a favore di un fondo di dotazione ad hoc, regolamentazione più razionale degli adempimenti, revisione della “interminabile serie di notificazioni che dilatano i tempi della riscossione” come l’obbligo del preavviso prima di 120 giorni dall’inizio del pignoramento per crediti sotto i 1000 euro. E altri interventi normativi – certo politicamente delicatissimi – che rafforzino la posizione del creditore pubblico, il cui raggio di azione oggi è ristretto per esempio dai limiti alla pignorabilità di stipendi, pensioni e abitazione principale e dalla franchigia di 120mila euro per l’espropriazione degli altri immobili.

L’incrocio dei dati? – Un altro tasto dolente riguarda l’uso, per aumentare l’efficacia della riscossione, dei dati contenuti nell’anagrafe dei rapporti finanziari. La legge di Bilancio per il 2020 ha consentito di utilizzare le informazioni sui rapporti bancari e finanziari ai fini dell’analisi del rischio evasione. Ma, trascorso più di un anno da quella manovra, la richiesta di parere sottoposta dal ministero dell’Economia al Garante della privacy è ancora in fase di istruttoria. Quei dati potrebbero essere usati anche per “aumentare l’efficacia dell’attività di riscossione e la tempestività dell’azione di recupero”, sottolinea la magistratura contabile. Ciliegina sulla torta, la gestione delle rateazioni: anche su questo fronte il quadro è sconfortante. A chi non paga le rate, annota la Corte, dovrebbe essere precluso l’accesso a successive misure di quel tipo che puntano ad aiutare chi vuol mettersi in regola. E invece oggi è sempre possibile rimettersi in pista, “dilatando i tempi di riscossione”. Non solo: ha senso che il debitore possa – come avviene oggi – accedere alle rate fuori tempo massimo, solo dopo che lo Stato ha avviato un’azione esecutiva? E ha senso concedere un piano di rateazione “senza alcuna indagine sulla sostanziale solvibilità dei richiedenti”? Le risposte spettano al governo.

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