Di articoli che raccontano le stranezze del Belgio, di come sia una Nazione creata a tavolino dalle potenze dell’Ottocento, dopo la disfatta di Napoleone a Waterloo, ce ne sono a bizzeffe. Molti spiegano dettagliatamente le tante anomalie di un Paese organizzato in uno Stato federale che non ha nemmeno un nome che va bene a tutti (Koninkrijk België per i fiamminghi, Royaume de Belgique per i valloni, Königreich Belgien per la minoranza tedesca. Belgium nelle versione inglese, quella neutra) diviso amministrativamente in 3 Regioni – Fiandre, Vallonia e Bruxelles (che oltre ad essere capitale dello Stato Federale, e de facto dell’Unione Europea, è anche capoluogo di 2 Regioni su 3) – e 3 Comunità – la comunità fiamminga, di lingua olandese (circa il 60% della popolazione), la comunità francofona, di lingua francese (circa il 35% e che comprende Bruxelles, che in territorio fiammingo ha avuto un interessante processo di “francesizzazione”) e anche la comunità germanofona, di lingua tedesca (1%), che ha un proprio Consiglio e governo, ad Eupen, ad est della regione vallona.

Ognuna di queste realtà custodisce gelosamente la propria identità linguistica e territoriale (soprattutto la parte fiamminga) ed ha una certa reticenza a riconoscersi nello Stato federale, il Belgio, in cui spesso la lingua di connessione per comunicare, tra le diverse comunità, diventa una lingua neutra, ossia l’inglese.

Insomma, il Belgio come lo conosciamo oggi, nasce nel 1830 a seguito di una rivoluzione cattolica-liberale per cacciare i regnanti protestanti olandesi, messi al comando del neonato “Stato cuscinetto” (Regno unito dei Paesi Bassi, 1814) creato dalle potenze dell’epoca per arginare l’espansionismo francese.

Sono passati quasi 200 anni e il Regno del Belgio resta diviso quasi in tutto (anche le famose scuole di fumettisti belga sono diverse tra fiamminghi e valloni) e seppur riesce ad andare avanti in una sorta di “caos organizzato”, con governi che – quando si riescono a comporre (il Belgio detiene i record di periodi senza governo, di recente oltre 600 giorni) – sono sempre frutto di complicati compromessi tra i vari fattori, lo spirito nazionale si accende solo ed esclusivamente quando i “red devils”, i diavoli rossi, competono in qualche grande torneo internazionale. Quando gioca la nazionale si smette di essere francofoni, germanofoni, fiamminghi o immigrati e si diventa tutti fans scatenati della selezione nazionale.

Dopo anni di senso di inferiorità verso la spettacolare scuola calcistica dei vicini olandesi e la cocente delusione di Euro 2000, dove si presentano agli europei da padroni di casa ma con una selezione scadente che fu eliminata a primo turno, il Belgio ha investito tanto sulla formazione dei giovani e ha prodotto da una decina di anni una generazione di fenomeni che esprimono un pensiero calcistico moderno e offensivo, che seppur non abbia prodotto alcuna grande vittoria (il terzo posto al mondiale 2018 è il massimo risultato) ha portato i “red devils” al primo posto del ranking mondiale FIFA, fattore di grande orgoglio per tutta la Nazione.

Non importa più a nessuno che i fratelli Hazard siano valloni e che De Bruyne, Mertens e Courtois siano fiamminghi, così come non importa che per evitare le antiche fazioni nello spogliatoio della nazionale belga si parli inglese, o che l’allenatore spagnolo non parli nessuna delle lingue ufficiali del Paese, per i Mondiali e gli Europei l’intera popolazione belga tifa per il Belgio e lo fa in maniera molto appassionata e colorita.

Peraltro la Nazionale oltre ad essere strumento di unità tra francofoni e fiamminghi, rappresenta quel che forse è il vero valore aggiunto di questo Stato, ossia l’integrazione. Sulla orme lasciate del campione nostrano Vincenzino Scifo (siciliano di La louviere, stessa città di Eden Hazard, che oggi ha ereditato la sua maglia numero 10) camminano oggi i figli e i nipoti degli immigrati che rappresentano il Belgio, come Yannick Carrasco (origini spagnole/portoghesi, nato a Bruxelles), Axel Witsel (Martinica, nato in vallonia) o il più grande goleador della storia della nazionale, Romelu Lukaku, che ha origini congolesi e che a proposito ha dichiarato: “A volte inizio una frase in francese e la finisco in fiammingo, e in mezzo uso un paio di espressioni in spagnolo, portoghese o lingala, a seconda di dove sono. Io vengo dal Belgio. Veniamo tutti dal Belgio. È questo che rende figo questo paese, no?”. Ed è proprio così, con i figli delle centinaia di migliaia di immigrati, esterni alle diatribe culturali e linguistiche storiche, che rappresentano orgogliosamente i colori di uno Stato che seppur strambo e creato a tavolino, è accogliente, attento sulle questioni sociali, all’avanguardia su quelle civili e che considera il multiculturalismo un valore e non un peso.

Con i dovuti ed enormi distinguo e differenze, di storia, lingua e dimensione (anche se l’Italia come Stato è tecnicamente più giovane del Belgio, essendo “nata” nel 1861, 30 anni dopo) quante volte abbiamo detto che il nostro è un Paese che si sente unito solo quando gioca la nazionale? La maglia azzurra è l’unico modo per vedere gente che schifa i terroni, voleva la secessione e sputava sulla bandiera, esultare per le gesta di un tridente composto da due napoletani e un calabrese, con dietro un sardo e un brasiliano. Totò Schillaci fu eroe nazionale per una intera estate, quella delle notti magiche, ma questo non lo salvò dai pregiudizi e dai cori razzisti, come “ruba le gomme”, che i “tifosi” gli riservavano ogni domenica.

Lo sport riesce ad avere più forza persuasiva delle grandi diplomazie e, se veicolato bene, può essere uno straordinario mezzo di unione, integrazione e coesione sociale.

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