Se un viaggiatore d’estate, nonostante questi tempi Covid, si trovasse a passare dalle parti di Bruxelles, e, più in generale, dalle parti delle Fiandre, e lo facesse per di più a due giorni dalla partita che i “Diavoli Rossi” belgi dovranno disputare contro l’Italia per i quarti di finale del campionato europeo, beh, rimarrebbe stupito dallo scoprire che non è questo l’argomento che più avvince la gente del Paese di Jacques Brel, Georges Simenon e Tin Tin. E’ la rivalità franco-belga esplosa clamorosamente la sera in cui i Bleus, la squadra di Mbappé e Pogba, sono stati sconfitti dalla Svizzera. E’ l’esplosione tradotta in esultanza popolare di liberazione del sentimento che i belgi chiamano “seum”. Una specie di suscettibilità repressa. Espressione gergale che riassume amarezza e disgusto, e pure rancore.

Un rancore covato da tre anni. Da quando il Belgio venne battuto dalla Francia in semifinale ai Mondiali del 2018, quelli che consacrarono campioni i francesi e relegarono il Belgio al terzo posto. Lukaku e compagni avevano appena liquidato nei quarti il Brasile di Neymar, e avevano oggettivamente giocato meglio ma non avevano concretizzato la loro superiorità. I francesi furono cinici. E fortunati. Un’ingiustizia di quelle che si evocano solo abbassando la voce. Onta nazionale patita allo stadio Krestowski di San Pietroburgo, lo stesso in cui è avvenuto il loro trionfale debutto in questo Euro 2020 spostato di un anno: vedi i destini crociati e il loro enigmatico senso…

I francesi, allora, furono sprezzanti nei confronti dei loro vicini, implacabili nel pesante sarcasmo: “Beh, adesso potete tornare a casa a mangiare le vostre patatine fritte”. Eden Hazard dichiarò, in preda all’immensa delusione, “preferisco perdere col Belgio che vincere con la Francia”, il lungagnone portiere Thibaut Courtois, appena sbeffeggiato da Ronaldo, aveva detto a fil di denti: “Abbiamo perso contro una squadra che non gioca”, i giorni successivi furono costellati da litanìe di cattiverie, di rinfacciamenti, di bellicosi propositi vendicativi.

I francesi, dissero i belgi, hanno mostrato qualità insospettabili di “vincenti esecrabili”, gliela faremo pagare. Il catalano Roberto Martinez che allena i Diavoli Rossi ormai da cinque anni continuava (e continua pure adesso) a rivedere il film di quella tragedia calcistica, “loro tenevano nove giocatori davanti al portiere…”, non ha smaltito il trauma di quell’insopportabile lentezza del gioco francese, eppure in questi giorni dovrebbe essere più tranquillo, gli algoritmi della banca d’affari Goldman&Sachs (di solito sbaglia raramente sul calcio) continuano ad attribuire la vittoria finale dell’Euro alla sua squadra, grazie all’uscita di scena della Francia, dell’Olanda, della Germania… il Belgio è primo del ranking Fifa, è il Paese più piccolo ad avere occupato questo posto, offre un gioco spettacolare, tecnico ed estetico. Ma è anche l’unico dei primi della classe a non aver vinto ancora un grande torneo…

E’ venuto il momento di porre fine a questa manchevolezza, è il tam tam di Bruxelles. Dovrà essere la Brabançonne l’inno del vincitore di questo Euro. Il buon dio del pallone ce lo deve. E comunque, un piccolo grande miracolo i Diavoli Rossi l’hanno già fatto: in un Paese lacerato dai conflitti intercomunitari, sono diventati l’emblema della fierezza e dell’unità nazionale. Perché è una squadra con un pantheon di giocatori distribuiti in parti eguali tra Valloni, Fiamminghi e giocatori immigrati. Rispecchia la realtà del Belgio. La sua patologia. E il suo riscatto.

Ma c’è da capire la rabbia della gente, esplosa l’altra notte, quasi una rivendicazione d’orgoglio patriottico. Per tutto questo tempo, l’ossessione della vergognosa sconfitta si era radicata nell’animo, addirittura trascendendo i pur annosi ed estenuanti dibattiti che più volte hanno scosso l’amicizia tra i due Paesi, come quelli sulla paternità di Johnny Hallyday, o sulla salsa samurai. La beffa dei Mondiali aveva resuscitato antichi dissapori, “il Belgio è un’invenzione”, “i francesi sono sciovinisti, noi no”, a tal punto che il risentimento per l’amarissima sconfitta aveva trovato ospitalità lessicale in un concetto riassunto dalla parola “seum”.

Subito ridicolizzata dai francesi, perché ancora una volta ciò dimostrava la sudditanza belga pure nell’adottare un vocabolo divenuto popolare a Parigi e dintorni negli ultimi anni, derivato dal termine arabo algerino sèmm. Significa veleno, ed è una delle 250 parole arabe entrate nell’uso quotidiano della lingua francese, piuttosto familiare tra i falansteri disperati delle banlieues parigine. Dove ha rimpiazzato l’espressione ‘j’ai la haine’, sono pieno d’odio, allargandone l’orizzonte semantico. Esprime infatti non solo odio, ma anche collera. E disgusto.

Tutto quello che hanno provato e provano ancora i tifosi belgi. Brutta cosa, temono i commentatori di giornali e tv: fomenta patriottismo aggressivo. Sciovinismo. Proprio ciò che rimproveriamo ai francesi… Il “seum” made in Belgium svela i “nostri complessi e le nostre frustrazioni di fronte a certi atteggiamenti francesi che sconfinano spesso nell’arroganza”. Perché imitarli?

L’euforia calcistica esalta la “belgitudine”, però cancella la grande caratteristica dei belgi, la loro autoderisione. Col risultato che a soffrirne di più sono i belgi francofoni, per i quali la questione è più complessa. Ha cioè una dimensione supplementare, profonda, viscerale. E paradossale. La rivalità coi francesi è infatti nutrita dall’elevato grado di dipendenza nei confronti della loro cultura e della loro politica. Il predominio francese è pesante, talvolta soffocante. Per liberarsene, si ricorre alla storia. L’antidoto alla supremazia gallica è nella festa nazionale che celebra la Battaglia degli Speroni d’oro, epica vittoria dei Conti di Fiandre contro Filippo IV il Bello, re di Francia. Avvenne l’11 luglio del 1302. La stessa data della finalissima di Wembley.

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