Mi trovo in Sicilia da pochi giorni e una sera, in una piazza di Palermo che amo, ho assistito alla conversazione di un gruppo di amici. C’era parecchia tensione e una persona del gruppo, rivolta agli altri, ha detto che “l’avevano scafazzata”. Un paio di mattine fa, al telefono, una sindacalista mi ha detto che i lavoratori stagionali non vogliono rivolgersi al sindacato perché “si scantano”. Nel fine settimana mi hanno proposto di andare in una certa spiaggia, un po’ isolata, così “ci arricriamo”.

Scafazzare, scantarsi, arricriarsi. In pochi giorni ho imparato tre nuove parole. Non so cosa ne pensiate, ma a me piacciono tantissimo. Dette da chi le sa pronunciare nel modo corretto – io sono bergamasco, quando le ripeto faccio ridere – sono ancora più belle. Ho l’impressione che mi restituiscano un senso di autenticità. E in qualche misura, mi fanno sentire più vicino alla cultura siciliana.

Per caso, su Facebook, sempre in questi giorni, mi è comparso un bell’annuncio del sindaco Giuseppe Sala – ora, potrà sembrare che io nutra una forma d’astio nei confronti di Sala, ma giuro che non è così (non ne ho motivo) – dicevo che mi è comparso su Facebook un suo annuncio che parlava di un murale fatto in un quartiere di Milano che si chiama Bovisa. E il murale consisteva in una scritta: “Bovisa Makers”. Dietro al progetto, leggo, c’è una campagna di YesMilano (che, leggo di nuovo, è un centro di informazioni turistiche) e che poi c’è anche Neighborhood by Neighborhood, e che a sostenere la campagna, invece, c’è Milano&Partners. La città, poi, è tappezzata di cartelloni con su scritto “Milano a place to be” (che poi sarebbe anche da discutere il fatto se sia davvero così, ma mi limito al discorso sull’uso della lingua). D’altra parte nel capoluogo lombardo è un must fare il brunch sui rooftop con vista skyline. È così cool.

Questi due approcci – la conservazione di espressioni dialettali nella lingua parlata, da una parte, e la ricerca spasmodica degli inglesismi, dall’altra – mi hanno fatto riflettere.

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un libro (che consiglio) del professor Antonio Zoppetti. Si intitola Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla (Hoepli, 18,9 euro) e fa il punto su quello che sta accadendo alla nostra lingua negli ultimi decenni. I dati sono eloquenti (e, per certi versi, preoccupanti): nel Devoto-Oli (edizione 1990) il totale degli anglicismi crudi, cioè quelli che vengono importati senza alcun adattamento, erano 1.700; nell’edizione del 2017 dello stesso dizionario erano 3.522 e in quella del 2020 3.958. In più, la metà dei neologismi che finiscono nei vocabolari sono anglicismi crudi. La nostra lingua, insomma, non è per niente in salute. Per non parlare dei dialetti, che hanno più di un piede nella fossa.

Buona parte del problema è costituita dalla categoria di cui faccio parte, quella dei giornalisti. Infarciamo titoli e articoli di lockdown (un collega giudiziarista utilizza, dall’inizio della pandemia, l’espressione “confinamento sanitario”, che trovo molto elegante), premier, report, hub, tutta la famiglia Covid (Covid free, Covid pass, Covid hospital), smart working (per restare nelle locuzioni che vanno forte) ma anche austerity, partner, leader, show, cash e così via.

Due brevi considerazioni. La prima: ho l’impressione che chi prova a intestarsi questa battaglia – la difesa dell’italiano e dei dialetti – abbia una sola provenienza politica (punterei, tendenzialmente, sulla Lega). E ciò non è un bene. La seconda: siamo così provinciali, abbiamo un complesso d’inferiorità così profondo che per colmare il presunto gap (ops, la presunta distanza!) con gli altri Paesi, non abbiamo trovato niente di meglio che assorbire parole ed espressioni inglesi al posto di crearne di nuove? Domanda: cosa possiamo fare per salvare l’italiano e il nostro gigantesco patrimonio dialettale?

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