Più cure e servizi di prossimità per rispondere meglio ai bisogni dei pazienti. È uno dei due capisaldi del Recovery plan per la salute, insieme all’ammodernamento tecnologico e alla digitalizzazione di tutto il sistema sanitario. Il programma nazionale di investimenti che il governo Draghi ha trasmesso il 25 aprile al Parlamento (e che l’Italia dovrà presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next generation eu, il piano comunitario per uscire dalla pandemia) stanzia complessivamente 20,2 miliardi di euro per rafforzare a innovare la sanità pubblica (erano 20,7 nella bozza dell’esecutivo di Conte). Di questi, nove miliardi (contro i 7,9 previsti dal governo precedente) sono destinati al potenziamento dell’assistenza domiciliare e della rete sanitaria territoriale e allo sviluppo della telemedicina e di una più efficace integrazione con i servizi sociali. Il ministero della Salute scommette su due modelli organizzativi già sperimentati in passato ma mai davvero decollati, ossia le case della comunità, nella sostanza molto simili a quella della salute, e gli ospedali di comunità, strutture per ricoveri brevi di pazienti fragili ma non gravi, che necessitano fondamentalmente di assistenza infermieristica, per evitare ospedalizzazioni improprie. L’obiettivo, dunque, è uscire sempre di più, non solo a parole ma anche con i fatti, dalla logica ospedalocentrica, che genera sprechi diagnostici, reparti sovraccarichi di casi non complessi, e allo stesso tempo distoglie energie e risorse per i servizi di cura e assistenza sul territorio.

Le case della comunità da attivare dovranno essere 1288 entro la metà del 2026. Sarebbero dovute essere quasi il doppio (2564) nella versione del piano di Conte, ma l’esecutivo Draghi ha deciso di dirottare parte dei fondi ad altre voci relative al Ssn. Il progetto ricalca quello delle case della salute, ideate in via sperimentale con un decreto ministeriale del 2007 firmato da Livia Turco ma a tutt’oggi presenti a macchia di leopardo e organizzate in maniera disomogenea (o del tutto incompiuta) nelle diverse regioni. Il modello verrà definito entro l’estate con il decreto ministeriale 71 (sui requisiti minimi dell’offerta territoriale). In queste strutture i cittadini devono trovare tutti i servizi sociosanitari di base offerti dal Servizio sanitario nazionale. L’assistenza viene erogata da un team multidisciplinare formato da medici di famiglia, pediatri, medici specialisti, infermieri di comunità e assistenti sociali, per una presa in carico globale della persona. Tra i servizi inclusi: il punto prelievi; la strumentazione diagnostica polispecialistica; lo sportello unico di accesso per le valutazioni dei bisogni socio-sanitari (prestazioni mediche, assistenza infermieristica e riabilitativa, cure palliative, igiene personale, somministrazione di pasti, eccetera) degli anziani fragili e soli e dei pazienti non autosufficienti o con patologie croniche; e, non da ultimo, la medicina di genere, per garantire percorsi clinici e di prevenzione appropriati alle differenze tra i corpi. Morale: questi luoghi non devono più limitarsi a ospitare soltanto studi associati di medici di base con qualche infermiere, come è successo finora in molte case della salute. L’integrazione della sanità con il sociale è fondamentale in considerazione di una società sempre più vecchia e sola e con un’epidemia di malattie croniche da fronteggiare (convive con una o più patologie croniche oltre metà degli over 65 e i tre quarti degli over 85).

Per limitare di accessi inappropriati i pronto soccorso e sgravare gli ospedali (destinati ai casi acuti) da prestazioni di bassa complessità, il Recovery plan riprende poi la soluzione degli ospedali di comunità, strutture a un livello intermedio tra l’assistenza a domicilio e quella in ospedale già previste dal dm 70 del 2015 e disegnate dall’Intesa Stato-regioni del 26 febbraio 2020. Ma al momento l’offerta resta carente e fortemente eterogenea sul territorio. Il piano, dunque, punta a realizzare 381 ospedali di comunità entro la metà del 2026 (anche in questo caso la bozza di Conte ne prevedeva 753). Si tratta di strutture con pochi posti letto (circa 20), per ricoveri brevi (di 15- 20 giorni), rivolte a pazienti dimessi dall’ospedale che devono completare la convalescenza – consentendo nel frattempo alle famiglie di riadattare lo spazio domestico alle nuove esigenze del malato e di cercare badante o caregiver che se ne prenda cura – o provenienti dal domicilio in caso di riacutizzazione della malattia (ma non così grave da richiedere un ricovero in ospedale). Qui gli ospiti ricevono assistenza e sorveglianza infermieristica h24, riabilitazione motoria e visite mediche. Attualmente l’ospedale di comunità può avere una sede propria oppure essere collocato presso presidi ospedalieri riconvertiti, presso strutture residenziali oppure in una struttura ospedaliera. Il quadro a livello regionale è così variegato che non esiste neanche un nome unico per identificare questo servizio. In quasi la metà delle regioni gli ospedali di comunità propriamente detti non esistono ancora e i posti letto di cura intermedia sono disponibili di solito all’interno delle Rsa. Dove esistono possono chiamarsi in maniera diversa: dalle “degenze di comunità” in Lombardia ai posti letto di “continuità assistenziale a valenza sanitaria” in Piemonte. La stessa funzione viene svolta anche, in coesistenza con gli ospedali di comunità, dalle unità di degenza infermieristica in Molise e Lazio e dalle unità riabilitative territoriali in Veneto.

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