Le pagine di sessuologia clinica parlano chiaro: lo stupro con il sesso non c’entra nulla, parliamo di un’imposizione di potere e violenza da parte di uno o più carnefici, verso una o più vittime. Ma anche le pagine di psicologia sono cristalline: un evento traumatico può comportare un vissuto complesso ed l’incapacità di ricordare o accettare in coscienza l’accaduto. Inoltre, quando parliamo di stupro, il trauma subito è accompagnato da sensi di colpa ed una forte vergogna. La sessualità concerne l’intimità dell’individuo, il mettersi a nudo e la fragilità di ognuno.

Ma torniamo sui vissuti della vittima: spesso crede di essere stata la causa della violenza subita, di essere sporca, colpevole, a volte può ritenere il proprio corpo disgustoso ed estraneo a sé stessa. Non sono dimensioni presenti sempre, ma certamente sono vissuti frequenti nella storia di chi ha subito violenza sessuale. È in questo limbo sottile di incertezza e fragilità che si insinua prepotente il victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima. Il teorico Bandura lo proponeva come meccanismo di disimpegno morale, oggi potremmo dire è uno dei cavalli di battaglia della cultura dello stupro: “in fondo, se l’è cercata!”. Ma no, questa spiegazione ci sta stretta: un crimine è un crimine ed uno sguardo ammiccante o una gonna corta non sono attenuanti, non possono più esserlo. Iniziamo a scrollarci di dosso la cultura del delitto d’onore, iniziamo a guardare un colpevole come tale ed una vittima come qualcuno che deve essere risarcito, quantomeno con il rispetto.

Si è innocenti fino a prova contraria, ma “se l’è cercata” non è una prova, è victim blaming.

Nelle pagine di questo blog è stato definito lo stupro come un modo di pensare e di relazionarsi con gli altri, un modo di imporre la propria forza e di gridare la propria ragione. Abbiamo assistito a dei fatti di cronaca lampanti in questo senso. È opportuno che si diffonda una cultura antagonista a quella della violenza, una cultura delle parole a tutela dei diritti: il victim blaming (colpevolizzazione della vittima), la condivisione di materiale intimo senza consenso, il catcalling, la molestia, la violenza sessuale, fisica e psicologica, sono solo alcuni dei termini di un nuovo linguaggio che condanna i soprusi e restituisce vita e legittimità alle vittime. Perché non è “normale” pensare che un abito possa essere una richiesta di violenza, non è “normale” pensare che il giorno dopo uno stupro la persona sia tanto lucida da denunciare immediatamente e nei minimi dettagli, non è “normale” avere paura di camminare da sole per strada, non è “normale” condividere foto intime su internet senza il consenso di chi è ritratto, non è “normale” fare sesso senza consenso.

Siamo in un’era di cambiamento e, come suggerito qualche articolo fa, le parole sono importanti e possono essere un importante motore di cambiamento, soprattutto se pronunciate da chi viene ascoltato da molti. È opportuno frenare la lingua malevola e intrisa di cultura della stupro, per dare spazio a parole di valore e tutela dei diritti.

Con la collaborazione della dottoressa Francesca Vannucchi

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