Un fegato prelevato da una persona deceduta in Lombardia ha salvato la vita ad una commessa umbra di 21 anni. Senza quel dono d’amore e di civiltà la ragazza, Kaltrina Bunjak, origini albanesi ma nata e residente a Foligno (Perugia), avrebbe avuto un’aspettativa di vita di pochi giorni. La rete delle cure, dal momento del suo malessere improvviso, in particolare l’unità di chirurgia dei trapianti dell’ospedale regionale Torrette di Ancona, ha consentito di salvarle la vita. Adesso, dopo due mesi di vero incubo, la ragazza racconta la sua odissea e la prospettiva di un’esistenza diversa, vissuta con occhi particolari: “Mi farò portatrice di azioni e messaggi diretti all’incentivazione delle donazioni di organi – racconta la Bunjak durante una delle visite di controllo e monitoraggio post-trapianto -. Prima della malattia non avevo mai affrontato il tema, non ci pensavo, era un argomento di scarso interesse. In fondo era normale, a 21 anni. Vivevo la mia vita serena, la famiglia, gli affetti, un lavoro che amo e i limiti imposti dalla pandemia. Ora, dopo aver sfiorato la morte, la mia concezione di vita è cambiata, la vedo con occhi diversi. La drammatica esperienza mi ha fatto crescere, mi sento più donna, maggiormente attenta ai fatti che accadono”.

Kaltrina Bunjak ha atteso un fegato nuovo per tre giorni dopo essere arrivata all’ospedale di Ancona. Entrata nella rete dell’emergenza trapiantologica nazionale, con la necessità di un intervento in tempi brevissimi, il sistema ha individuato l’organo giusto per lei, espiantato da un paziente deceduto in Lombardia e perfettamente compatibile. Ora quel fegato svolge la sua fondamentale funzione dentro di lei: “Non passa giorno che io non pensi, seppur in maniera indefinita, a quella persona che col suo dono mi ha salvato da morte certa. È strano, incredibile e triste per certi versi pensare come una vita, la mia, sia tornata normale grazie al sacrificio di un altro essere umano. Adesso sono qui, a parlare con lei, certo devo recuperare la forma migliore dopo due mesi di ricovero, ma presto lascerò Ancona per tornare definitivamente a casa. Sto tornando ad una normalità quotidiana pressoché totale. A parte l’assunzione di una pillola al giorno necessaria per evitare ricadute e qualche limitazione sui cibi, cioccolata, fritti e roba piccante, è tutto come prima”.

Gli orizzonti cambiano quando la vita ti porta dentro un tunnel che sembra senza fine. La luce in fondo a quel tunnel per Kaltrina è arrivata proprio grazie al dono offerto da una persona deceduta. Il dono, un concetto pragmatico oltre che etico: “Ad una persona morta gli organi non servono più – interviene il primario della chirurgia epatobiliare-pancreatica e dei trapianti degli Ospedali Riuniti di Ancona -. Lo so è un concetto forte, ma dopo trent’anni di attività in questo settore, tra centinaia di prelievi, impianti e consulenze di esami autoptici, veder sprecare parti del corpo vitali in questo modo mi fa arrabbiare. Il fegato o i reni in un cadavere deperiscono, non hanno alcun costrutto. Con la morte una persona finisce nella bara e di quei tagli su petto e addome non resta traccia. Qui di fianco a me, seduta, c’è l’esempio di come dovrebbero andare le cose. La guardi questa ragazza, giovane e con tutta la vita davanti. Mi perdoni, ma non riesco più a sopportare l’ottusità di chi pone il diniego di fronte alla donazione degli organi”.

Il professor Marco Vivarelli, bolognese di nascita e di formazione, dirige l’area trapianti di Ancona da oltre dieci anni. La sua attività è direttamente collegata alle donazioni: “La pandemia sta producendo danni anche al nostro settore. Sembra quasi che la gente, arrabbiata per la gestione della pandemia ai vari livelli istituzionali, sia affetta da una sorta di reazione sociale, facendo venire meno anche gli assensi alle donazioni. Il 2021 è partito con il freno a mano tirato: in 3 mesi abbiamo fatto 7 trapianti di reni e 6 di fegato; nello stesso periodo del 2020 complessivamente i trapianti erano stati 19 e nel 2019 addirittura 24”. Non era certo il primo trapianto per il docente della Politecnica delle Marche: “Quando entri in sala operatoria e hai davanti una paziente così giovane dentro scatta qualcosa di diverso rispetto al solito. Kaltrina poteva essere mia figlia e il suo quadro clinico era gravissimo. Dopo l’intervento ha avuto una crisi di rigetto che solitamente negli adulti produce conseguenze abbastanza lievi, per lei invece è stato diverso. Capita raramente, soprattutto nell’area pediatrica. La sua è stata una degenza post-trapiantologica molto lunga, oltre 40 giorni. Mi creda, se qualcosa fosse andato storto e non avessi potuto salvarla, questo fatto avrebbe lasciato una cicatrice dura da rimarginare in me”.

Il dramma di Kaltrina è iniziato il 24 gennaio scorso, senza alcuna avvisaglia. La sera prima aveva mangiato sushi in un ristorante di Foligno e quello è stato il primo indiziato per la crisi epatica sofferta dalla 21enne. Le analisi e gli esami istologici hanno escluso che la causa della crisi possa essere stata provocata da un’intossicazione alimentare: “Al massimo può aver svolto una funzione accelerante di una patologia latente di cui la ragazza non era a conoscenza”, aggiunge il professor Vivarelli. Una malformazione che, in 21 anni di vita, non si è mai palesata fino a quel giorno. “Io ed il mio staff siamo convinti che si tratti della sindrome di Wilson, ossia l’accumulo di rame nel fegato, presto avremo i risultati delle analisi specialistiche di laboratorio che abbiamo commissionato”.

La mattina del 24 gennaio Kaltrina si svegliata con forti dolori alle stomaco e le pelle di colore giallognolo: “Col tempo i dolori non passavano e dopo aver fatto le analisi del sangue sono finita in pronto soccorso – racconta – . Le cose sono precipitate, fino al trasferimento in rianimazione all’ospedale di Foligno. Da quel momento a quando mi sono risvegliata dopo il trapianto sono passati alcuni giorni, ma di questo lasso di tempo ho pochi e vaghi ricordi. Le pale del rotore dell’eliambulanza che mi portata ad Ancona, volti indefiniti e voci dei sanitari confuse che mi dicevano ‘abbiamo trovato un fegato, eri in un lista di emergenza nazionale’ oppure ‘hai rischiato di non farcela’. Non ho mai avuto piena coscienza di un quadro clinico così grave, arrivando addirittura fino al trapianto”. In attesa di tornare nella sua Foligno, Kaltrina sta passando i giorni e le festività pasquali in lockdown ad Ancona: “Passeggio più che posso, certo sempre attorno all’appartamento preso in affitto dove sto con mia madre, mentre papà e mia sorella sono a casa. Devo riprendere il tono muscolare, ma sto bene. Appena possibile, pandemia permettendo, voglio tornare al mio lavoro e, quando sarà possibile, abbracciare tutte le persone che mi sono state vicine e che hanno aiutato me e la mia famiglia”.

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