Un mese e mezzo fa, quando Pfizer e Moderna non avevano ancora annunciato i tagli alle consegne dei vaccini per il primo trimestre e il siero Astrazeneca sembrava la via per uscire dall’emergenza entro l’estate, Massimo Galli era nettamente contrario all’ipotesi di posticipare i richiami del farmaco anti-Covid. Una prassi non prevista dai protocolli delle case farmaceutiche ma adottata da Regno Unito e Israele, entrambi alle prese con contagi alle stelle e reduci da più lockdown nazionali. “È una cosa su cui non abbiamo nessuna informazione, fuori da ogni regola. Di fatto hai sperimentato una cosa in una maniera e per motivi di emergenza la stai dando in un’altra“, aveva detto il virologo dell’ospedale Sacco di Milano a Cartabianca, su Rai3. Con lui era d’accordo anche il collega dell’università di Padova Andrea Crisanti. Ma ora che i vaccini scarseggiano e c’è il rischio di “un’ondata sostenuta da varianti“, Galli ammette di aver cambiato idea. “Sono arrivati i primi dati scientifici da Israele e dicono che dopo la prima dose c’è stato un crollo delle infezioni in tutto il Paese. Se il risultato è così vasto e documentato, ci si può ragionare”, spiega a Ilfattoquotidiano.it. Ma avverte: “Servono dei paletti, ad esempio garantire la seconda dose ai più fragili, evitare di vaccinare chi ha già avuto la malattia, tentare di fare dei lockdown vaccinali nelle zone più colpite”.

Professor Galli, perché ora prende in considerazione questa ipotesi?
Mi costa molta fatica cambiare linea in corsa, ma c’è una differenza rispetto a un mese e mezzo fa. Mentre gli inglesi hanno scelto questa strategia aprioristicamente, facendo un discorso non sostenibile, (‘Se sei in guerra, ti comporti come tale’), adesso c’è un risultato misurabile. I dati di Israele (pubblicati, anche se non in compiutezza) confermano che c’è stato un crollo delle infezioni già dopo la prima dose. Io non dico di farne soltanto una, ma almeno di discutere se rinviarla rispetto ai protocolli previsti attualmente (per Pfizer il richiamo va fatto dopo 21 giorni, per Moderna dopo 28 e per Astrazeneca dopo 10-12 settimane, ndr). In questo modo avremmo più dosi da somministrare subito e non ci sarebbe bisogno di accantonare quelle per i richiami. Però bisogna fissare delle condizioni precise.

Quali?
Innanzitutto bisogna decidere come comportarsi con le persone fragili. Io ci penserei due volte a non fare il richiamo di Pfizer e Moderna agli immunodepressi o a chi ha patologie gravi. Poi ci sono gli over 80: in base ai dati israeliani potrebbero anche ricevere soltanto una dose, ma serve qualche cautela in più. Diverso è il caso dei giovani, lì si potrebbe decidere di fare una sola iniezione e posticipare la seconda.

Per farla dopo quanto tempo?
Il criterio potrebbe essere quello di verificare il titolo anticorpale nei cittadini. Chi ha una risposta immunitaria a 20 giorni dalla prima dose Pfizer, ad esempio, potrebbe saltare l’appuntamento del 21esimo giorno previsto dal protocollo e farla più in là. Bisogna valutare e monitorare il titolo anticorpale. E si potrebbe fare lo stesso con chi è già guarito dal Covid, così da evitare di iniettargli il vaccino e risparmiare dosi per le altre persone. Lo dico da mesi, ma su questo non mi ascoltano.

In sostanza lei dice: visto che abbiamo pochi vaccini, rinviamo il richiamo per i più giovani e non somministriamolo affatto a chi ha già contratto il virus. Ma non c’è il rischio che una volta scomparsi gli anticorpi le persone possano reinfettarsi?
Gli studi dimostrano che la memoria immunologica permane anche a 8 mesi dalla malattia. E gli scienziati non sono andati oltre nelle stime semplicemente perché la pandemia è iniziata un anno fa. Lo dimostra il fatto che molti vaccinati che in passato erano risultati positivi hanno comunque avuto un’impennata di anticorpi molto forte subito dopo l’iniezione. Ovviamente tutto andrebbe fatto con grande cautela, ma è arrivato il momento di aprire la discussione.

Se l’Italia decidesse di fare come Uk e Israele, servirebbe un via libera dell’Aifa?
Credo che in quel caso dovrebbe discuterne il Comitato tecnico scientifico, andrebbero fatte varie valutazioni, sia sanitarie che logistiche. Io mi limito ad esprimere un’opinione aperturista. Ci troviamo di fronte al rischio di un’ondata sostenuta da varianti, che per loro natura non tendono a circoscriversi ma a fare l’opposto. Dobbiamo vaccinare rapidamente. Quindi bisogna fare di necessità virtù. E poi comincio a pensare che sarebbe importante vaccinare non solo per strati della popolazione, ma anche per aree.

In che senso?
I casi di Brescia, Perugia, il basso Molise dimostrano che ci sono zone dove il virus sta correndo di più, favorito dalle varianti. Ecco, si potrebbe riadattare la strategia di vaccinazione su un doppio binario: da un lato andare avanti per strati, quindi mettendo al sicuro i più fragili, gli immunodepressi, gli anziani. Ma allo stesso tempo somministrare più dosi nelle aree geografiche più colpite e nei territori limitrofi. In questo modo si riuscirebbe a ‘trattenere’ il Covid-19 (e le sue mutazioni).

In pratica lei propone un “lockdown del virus”?
Esatto, lo chiamerei un lockdown vaccinale intelligente. Chiudere il virus e non solo le persone. Certo, l’operazione dovrebbe passare dai dei lockdown locali. Tamponi per tutti e vaccini per tutti, ma poi si può riaprire. Nel frattempo si riesce a frenare la corsa delle varianti e ad evitare che dilaghino. Questo ragionamento però ha un limite, cioè quello dei bambini.

In questi giorni in effetti si stanno moltiplicando le chiusure delle scuole in tutta Italia a causa dei contagi. Ma è davvero l’unica soluzione?
L’ostacolo maggiore di tutta questa situazione è che per i bambini al momento non esiste un vaccino contro il coronavirus. Quindi il virus corre inevitabilmente tra i banchi, specie con la variante inglese. Però se metti al riparo genitori e insegnanti comunque un primo risultato lo ottieni. E poi resta sempre valida la regola degli screening di massa: bisogna fare test, test e test, non solo chiudere. Ad esempio facendo i salivari a tappeto. L’obiettivo deve sempre essere quello di controllare e contenere l’epidemia, non chiudere le scuole.

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