Mentre in Europa continuano a stringersi alleanze tra case farmaceutiche per produrre i vaccini già approvati e sul punto di avere il via libera dagli enti regolatori, anche l’Italia potrebbe partecipare con le sue aziende alla produzione. Una strategia che sarebbe gradita al premier Mario Draghi anche in una ottica di collaborazione europea. “Siamo stati contattati ieri dal ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti per fare il punto della situazione sulle possibilità di produrre i vaccini anti-Covid in Italia” ha spiegato all’Ansa il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, presidente e Amministratore Delegato di Janssen, farmaceutica del gruppo Johnson&Johnson, che proprio oggi ha firmato un accordo con Sanofi-Gsk per produrre il vaccino americano in Francia. “Già domani potremmo incontrarci – ha aggiunto – per fare un piano e dare una mano. Noi spiegheremo come si produce un vaccino e quali sono i tempi. Adesso stiamo facendo una ricognizione tra le aziende a noi associate per vedere chi ha le macchine adatte (i bioreattori) per partecipare eventualmente alla produzione”.

In Italia ci sono molti stabilimenti in grado di compiere un’impresa del genere. In una intervista al Fattoquotidiano.it Scaccabarozzi aveva parlato dello “stabilimento Catalent di Anagni, in provincia di Frosinone, ha già ricevuto da Johnson & Johnson il mandato alla produzione del suo farmaco. Poi ci sono quelli della Glaxosmithkline di Siena, che sicuramente sono i più attrezzati. Sempre ad Anagni ci sono anche gli stabilimenti di Sanofi Italia”. Oggi all’Ansa il top manager ricorda che “la produzione di un vaccino non è come realizzare altri farmaci: un vaccino è un prodotto vivo, non di sintesi, va trattato in maniera particolare. Il vaccino deve avere una bioreazione dentro una macchina che si chiama bioreattore. Insomma, non è che si schiaccia un bottone ed esce la fiala, da quando si inizia la produzione passano 4-6 mesi”. “Bisogna essere consapevoli – ha aggiunto Scaccabarozzi – che le aziende che si trovano in Italia, per produrre il vaccino devono avere le macchine necessarie. Importante anche l’infialamento: alcune hanno già delle macchine per questo passaggio della produzione, ma bisogna vedere se sono adatte a infialare proprio quei vaccini. Alla Catalent di Anagni per esempio lo stanno già facendo con Astazeneca e lo faranno anche con il preparato di Johnson&Johnson”.

Oggi in una intervista a La Stampa il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù, ha ricordato che “l’Italia produce da tempo vaccini in conto terzi e ha una grande potenzialità di impianti. L’industria potrebbe fare la sua parte per fronteggiare l’emergenza – spiega ancora – intervenendo in varie fasi della produzione dei vaccini autorizzati, come i processi di diluizione, filtrazione, concentrazione, liofilizzazione e infialamento“. Un concetto che il virologo aveva già spiegato al Fattoquotidiano.it: “Abbiamo molte industrie medio grandi (Menarini, Zambon, Chiesi), che potrebbero collaborare nella produzione, magari anche solo di una delle fasi di cui si compone la filiera produttiva di una vaccino, accelerando le produzioni ma questa azione di stimolo verso un’alleanza tra produttori, non è di competenza dell’ente regolatore”. Per poter dare un’impronta in tal senso “ci deve essere la volontà politica, che va espressa ai massimi vertici, un’iniziativa del Governo insomma, presidente del Consiglio e vari ministeri” che coordinino un’operazione specifica, riunendo le industrie italiane “che dispongano di tecnologie sovrapponibili – concludeva Palù – in tal caso ci potrebbe essere una sinergia tra piattaforme simili”. Ed è in quest’ottica che lo Stato potrebbe guidare l’alleanza per produrre i vaccini già approvati anche in attesa della sperimentazione del vaccino italiano.

Per produrre i vaccini anti-Covid in Italia, “bisogna intanto sapere che cosa si vuole produrre. Ci sono due fasi, la prima riguarda la produzione della sostanza: cioè produco l’Rna, la proteina, il virus dello scimpanzè, a seconda dei vaccini. Per farlo ci vogliono i bioreattori ma in Italia non ci sono gli impianti. Solo Gsk ha i bioreattori, ma non per il vaccino anti-Covid, bensì per il vaccino contro la meningite che è batterico. Reithera ce l’ha ma non credo per fare milioni di dosi. La seconda fase riguarda l’infialamento e da noi molte aziende possono farlo” ha spiegato all’Ansa Rino Rappuoli, direttore scientifico di Gsk.

In questa operazione potrebbe entrare anche la Difesa. Dotarsi oggi di tecnologia adeguata per produrre mRna, sia per i vaccini, ma anche per le terapie avanzate anticancro, permette di elaborare un piano a lungo termine “i siti della Difesa potrebbero assolvere a tale obiettivo. Possiamo avere queste capacità e queste potenzialità – ha spiegato il Generale d’armata Antonio Zambuco, che si è occupato proprio di queste attività in piena pandemia – cerchiamo di essere autonomi. Durante la prima ondata non avevamo respiratori, ci siamo adoperati e ne abbiamo prodotti 2mila in poco tempo. Non avevamo mascherine a disposizione, adesso le produciamo noi: 1,5 milione di Ffp2 e 3,5 milioni di chirurgiche”. La strada della partecipazione “strategica” è rimarcata da Nicola Latorre, direttore generale dell’Agenzia Industrie Difesa “è una questione di Sicurezza nazionale sanitaria, ci stiamo dotando di queste concrete possibilità produttive e di competenze – e continua – abbiamo già avviato un accordo per entrare in un polo Biotech, in Italia. La Fondazione Toscana Life Sciences e lo stabilimento Chimico Farmaceutici Militare (SCFM) di Firenze, collaboreranno nella realizzazione di un programma integrato di ricerca e sviluppo per la produzione di vaccini”.

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