Il rischio è quello di pescare a piene mani dalla retorica. Perché ogni volta che si affronta l’argomento si finisce sempre per utilizzare la parola “utopia”, per racchiudere tutto nell’espressione “potere al popolo”. Il lemma che racconta alla perfezione il significato di azionariato popolare, invece, è un altro: progetto. Poche lettere che racchiudono una speranza. Soprattutto a Livorno.

Da tempo il club cittadino si trascina esangue fra Lega Pro e cadetteria. La partecipazione alla Coppa Uefa 2006/2007 è un ricordo sbiadito, Protti, Tavano e Lucarelli dei santini da tenere sul comodino, protettori di una squadra che ora arranca al penultimo posto del Girone A della Serie C. La situazione è impietosa. A livello tecnico, sportivo, finanziario, societario. La proprietà è frazionata fra diversi imprenditori, ma di soldi ne sono rimasti pochi. L’anonimato diventa un obiettivo ambizioso, perché la paura neanche troppo inconfessabile è quella del fallimento. Uno status quo orroroso soprattutto per i tifosi, ormai stufi di starsene con le mani in mano, spettatori inermi di uno spettacolo poco elettrizzante tanto in campo quanto fuori dall’erba verde.

E se non possono intervenire su un presente fatto di spalti deserti e curve silenziate, almeno possono provare a cambiare il futuro. Lunedì scorso, infatti, è stato presentato Livorno Popolare, il progetto di azionariato dal basso che vuole portare a termine quella rivoluzione di cui si vagheggia da tanto tempo. Addio al presidente come monarca assoluto di un club, come figura capace di dispensare soddisfazioni ottriate ai supporter. La parola d’ordine è “democrazia”, l’obiettivo ghigliottinare una volta per tutte la visione del tifoso come consumatore per renderlo parte attiva nel processo decisionale del club. Ma anche sprigionare sul territorio il valore sociale del club, fra scuole calcio accessibili e centri di aggregazione per tutti i tifosi. La base che rovescia la piramide fino a diventarne punta, che detta le decisioni senza più subirle.

E per riuscirci è necessario acquistare una quota di azioni nel club. Uno scenario piuttosto diffuso in Germania, Inghilterra e Spagna (ve ne avevamo parlato qui), ma che in Italia rappresenta ancora un tabù. Almeno fino a ora. Il progetto di Livorno Popolare è ambizioso, ma allo stesso tempo concreto. Tutto è partito con un gruppo di studio che lunedì prossimo si trasformerà in “comitato” e che ha chiamato a raccolta i tifosi. E in poco meno di tre giorni le adesioni al progetto sono state quasi duemila. Un fronte che tiene insieme cittadini, tifosi e anche qualche ex giocatore come Amelia ed Emerson. Un successo che ha spiazzato tutti. Anche i membri stessi del comitato di studio. “Per il momento si tratta di adesioni non vincolanti – ha raccontato Ilfattoquotidiano.it Alessandro Colombini, uno dei membri del gruppo – Sono delle semplici alzate di mano di gente che si mette a disposizione. Dobbiamo creare un patto sociale perché non chiediamo soldi, ma credibilità”.

I numeri, infatti, diventano la benzina stessa del progetto, la spinta necessaria a rovesciare il tavolo. “Il prossimo obiettivo è arrivare a quota 5mila firme – continua Colombini -, ma dobbiamo avere quante più persone possibile alle spalle per poterci presentare in sede e andare a studiare i conti. E una volta esaminati saremo in grado di stilare un business plan che ci permetterà di stabilire quale sarà la quota minima e quella massima, perché non vogliamo che la società possa essere scalabile“.

Già, le quote da versare. Perché anche i sogni hanno un costo. Soprattutto nel calcio. Per acquistare il proprio pezzetto di club dovrebbe essere sufficiente una cifra simile al costo di un abbonamento. E si pagherà una volta sola. Poi si andrà alla ricerca di sponsor e di soci. Ma solo di minoranza. Perché Livorno Popolare ha le idee chiare: “Noi vogliamo acquistare il 51% delle quote del club, non vogliamo prendere parte solo a decisioni pittoresche come la scelta delle maglie per la stagione successiva o lo sponsor – aggiunge Colombini – Noi vogliamo una squadra etica e accessibile, ma che sia anche vincente sul campo”.

A questo proposito il comitato sta studiando tute le differenze fra i modelli internazionali per provare a dar vita a un ibrido in grado di aderire alla perfezione alle esigenze di un club che rappresenta una città di circa 155mila abitanti. Ma il sistema da seguire per fare in modo che i tifosi possano effettivamente esprimere la propria opinione è quello della democrazia rappresentativa. Niente idea dell’uno vale uno, ma la creazione di un organo di eletti che sia in grado di prendere decisioni chiare, di scegliere le strategie da attuare per mettere in sicurezza il futuro. “Livorno è una città con una precisa identità politica e culturale – spiega Colombini – In questo senso possiamo rifarci all’esperienza del St Pauli, che è stato in grado di creare il quarto merchandising più remunerativo della Bundesliga, mentre per la scuola calcio vogliamo ispirarci all’esperienza del Centro Storico Lebowski“.

Un progetto enorme che, tuttavia, non viene mai spiegato utilizzando la parola “sogno”. Perché la sopravvivenza del Livorno, che sta per essere risucchiato nel calcio dilettantistico, è legata soprattutto alla concretezza. “In Italia l’azionariato popolare è associato al calcio delle categorie minori – sottolinea -, ma le esperienze straniere raccontano esattamente il contrario. Il fraintendimento nasce dal fatto che abbiamo sempre avuto delle situazioni dove i tifosi erano sempre soci di minoranza e mai di maggioranza. Credo che il caso del Livorno possa entrare nella storia”.

Difficile capire a quale traguardo possa davvero ambire in futuro una squadra sull’orlo del baratro. Ma un’eventuale riuscita del progetto potrebbe rappresentare un esperimento interessante. Perché essere tifoso e allo stesso tempo proprietario di una squadra vuol dire annacquare le pretese sorde di nuovi acquisti, impegnarsi nel sociale, comprendere le sconfitte, vivere in maniera diversa le vittorie, identificarsi in maniera totale in un valore, in un codice fondante. Significa ricostruire quella liturgia del pallone che la moltiplicazione delle partite e il calendario spezzatino hanno fagocitato. “Vogliamo rendere il club sostenibile a livello umano – conclude Colombini – e questa idea ti permette di fare pace con il tuo club”. E questa, a Livorno, sarebbe già una vittoria.