Donald Trump è stato assolto dal Senato Usa. Alla fine di un processo veloce, durato solo cinque giorni, 57 senatori hanno votato per la sua condanna, 43 per l’assoluzione. Non si è dunque arrivati ai 67 voti che sarebbero stati necessari per condannare l’ex presidente per “incitamento all’insurrezione”. Il verdetto mostra la presa che Trump continua ad avere su buona parte del suo partito e mette fine a 39 giorni tra i più movimentati della storia americana: l’attacco al Congresso il 6 gennaio, la richiesta di impeachment per Trump, l’inaugurazione di un nuovo presidente, un processo al Senato che lascia molte ferite aperte nella politica e nella società americana. Dopo il verdetto di assoluzione, Trump ha esultato e ringraziato i repubblicani.

Con i 50 senatori democratici, hanno votato per la condanna di Trump sette senatori repubblicani: Richard Burr del North Carolina, Bill Cassidy della Louisiana, Susan Collins del Maine, Lisa Murkowski dell’Alaska, Mitt Romney dello Utah, Ben Sasse del Nebraska, Patrick J. Toomey della Pennsylvania. Nonostante non sia stato raggiunto il numero di repubblicani necessari per la condanna – almeno 17 – i sette senatori che hanno votato contro Trump sono comunque un fatto storico. Mai, nei tre processi per impeachment precedenti (Andrew Johnson nel 1868, Bill Clinton nel 1998, lo stesso Trump nel 2020), sette senatori avevano votato contro un presidente del loro stesso partito.

Il verdetto di assoluzione finale era in qualche modo scritto fin dall’inizio. La maggioranza dei senatori repubblicani (come prima i deputati) ha sempre rigettato le tesi dell’accusa. La loro posizione è stata questa: l’impeachment è un istituto che serve per allontanare un funzionario pubblico in carica. Non essendo Donald Trump presidente, è anticostituzionale processarlo. Questa è stata la tesi sostenuta anche dai legali di Trump nell’aula del Senato, insieme a un’altra. E cioè che il Primo Emendamento protegge le dichiarazioni incendiarie di Trump, che per settimane dopo il voto, senza alcuna base fattuale e legale, ha rilanciato l’accusa dei brogli elettorali. Nel sostenere una cosa non vera, Trump avrebbe quindi esercitato il suo diritto alla libera espressione. La “piccola folla”, definizione degli avvocati di Trump, che ha attaccato il Congresso il 6 gennaio avrebbe agito in totale autonomia, non incitata dall’ex presidente.

In realtà, nell’aula del Senato nessuno tra i repubblicani ha di fatto giustificato il comportamento di Trump. È ancora troppo forte, tra gli stessi membri del Grand Old Party, il ricordo dei momenti che portarono all’assalto del 6 gennaio: Trump che in un comizio davanti al Capitol chiede ai suoi supporters di marciare sul Congresso e di “combattere come all’inferno”, la folla che rompe due argini di difesa innalzati dalle forze di sicurezza e irrompe nel Capitol, la massima istituzione del governo statunitense, distruggendo e costringendo alla fuga deputati e senatori che stavano certificando la vittoria presidenziale di Joe Biden (filmati mai visti prima, e proiettati dall’accusa nell’aula del Senato, hanno mostrato quanto gli assalitori si siano trovati vicini a Mike Pence, il vice presidente che presiedeva la seduta e che veniva considerato, dai supporters di Trump, “un traditore”). Nessuno, tra gli stessi repubblicani, ha dimenticato quei momenti, o ha dimenticato che, mentre era in corso l’attacco, Trump in un tweet lodava gli assalitori come “patrioti”.

Il fatto è che, tra i repubblicani, ha alla fine prevalso un calcolo politico. Trump è ancora troppo popolare tra i militanti del partito. Condannarlo avrebbe significato mettersi contro questa gente, oltre che esporsi a pericolose vendette proprio da parte di Trump alle prossime elezioni. O anche prima, come sta succedendo a Bill Cassidy, ora che la commissione esecutiva del partito repubblicano della Louisiana ha votato una mozione di censura nei suoi confronti: “Condanniamo nei termini più duri il suo voto. Fortunatamente menti più lucide hanno prevalso e Trump è stato assolto”, ha reso noto la commissione. Cassidy aveva twittato di aver votato per la condanna “perché la nostra Costituzione e il nostro Paese sono più importanti di qualsiasi persona”.

Meglio dunque votare per la sua assoluzione, sperando che l’ex presidente, lentamente e progressivamente, abbandoni la scena pubblica. Molto chiare a tutti sono però le responsabilità di Trump. In un discorso carico di indignazione, dopo il voto, il leader repubblicano Mitch McConnell ha detto che la condotta di Trump prima dell’attacco al Congresso rappresenta “una disgraziata inadempienza dei propri doveri” per la quale deve essere considerato “praticamente, e moralmente, responsabile per gli eventi del 6 gennaio”. McConnell ha giustificato il suo voto per l’assoluzione con la tesi che il Senato non può essere considerato “un tribunale morale”, volto a censurare le azioni di Trump, ma ha anche aggiunto che l’ex presidente resta soggetto a un possibile procedimento penale. “Il presidente Trump è ancora responsabile per tutto ciò che fece mentre si trovava in carica. Non si è lasciato dietro nulla”.

Durante il processo, l’accusa ha invece sostenuto che Trump continua a rappresentare una minaccia per la democrazia americana. “Se non è un alto crimine e un misfatto quello che ha fatto Trump – ha detto Jaime Raskin, il deputato del Maryland che ha guidato gli House managers responsabili di sostenere l’accusa – niente lo è”. Durante una presentazione durata 16 ore, che si è avvalsa del frequente ricorso ai filmati, i democratici hanno cercato di ricreare soprattutto emotivamente i momenti dell’assalto del 6 gennaio. La tesi dell’accusa è stata una: Trump non è protetto dal Primo Emendamento per ciò che ha fatto. Il giuramento pronunciato al momento della sua salita alla Casa Bianca, quello di proteggere la Costituzione degli Stati Uniti, sarebbe stato clamorosamente spezzato dalle sue continue esternazioni sulle elezioni rubate. Non è stato, dicono, solo il comizio del 6 gennaio a spingere la folla dei supporters ad attaccare il Congresso, la valanga di sue dichiarazioni sui brogli elettorali, iniziate mesi prima dello stesso voto presidenziale, avrebbe creato le condizioni per il tentato colpo di Stato.

Nelle ore immediatamente precedenti il voto, i democratici hanno cercato di ammettere una testimone: la deputata repubblicana Jaime Herrera Butler che in diverse dichiarazioni pubbliche ha spiegato di aver parlato con il leader repubblicano della Camera, Kevin McCarthy, che le avrebbe confermato un fatto: Trump, nei momenti dell’assalto al Congresso, si è rifiutato di condannare gli assalitori (Herrera ha votato per l’impeachment di Trump alla Camera). Di fronte alla richiesta dei democratici di chiamare in aula Herrera, i legali di Trump hanno opposto una forte resistenza, minacciando di aggiungere alla lista centinaia di testimoni (tra cui anche la speaker della Camera, Nancy Pelosi). Di fronte all’ipotesi di un processo che si sarebbe allungato per settimane (ipotesi che ha sempre preoccupato Joe Biden), i democratici hanno fatto marcia indietro, chiedendo di ammettere soltanto una dichiarazione scritta della deputata Herrera.

Fino alla fine l’accusa ha cercato di appellarsi al senso di responsabilità istituzionale dei senatori. Sono stati ricordati momenti essenziali della storia americana: l’abolizione della schiavitù, il passaggio del Civil Rights Act, le sanzioni contro l’apartheid in Sudafrica, per sottolineare come il Congresso abbia saputo fare la scelta moralmente giusta. “Ci sono momenti che trascendono l’appartenenza politica e che chiedono di mettere da parte i partiti perché, se non lo facessimo, le conseguenze sarebbero troppo gravi”, ha detto uno dei manager dell’accusa, Joe Neguse. Niente ha smosso il (quasi) granitico appoggio repubblicano all’ex presidente, che ha chiesto ai suoi legali, in aula, di perseguire uno stile particolarmente aggressivo. Gli avvocati di Trump hanno parlato di “caccia alle streghe”, di “cultura della cancellazione istituzionale”, del “disperato tentativo dei democratici” di distruggere un avversario politico. “Non dovete cedere alla disonestà e all’ipocrisia”, ha detto rivolto ai senatori repubblicani Michael van der Veen, uno dei legali della difesa.

Alla fine Trump è stato dunque assolto. Sdegno per il verdetto è stato espresso da Nancy Pelosi che ha escluso la possibilità che ora la Camera voti una censura per l’ex presidente: “Si censura la gente per non usare correttamente la cartoleria, non per incitare all’insurrezione”, ha detto Pelosi. Un appello alla difesa della democrazia è stato lanciato da Joe Biden. “Questo triste capitolo della nostra storia ci ricorda quanto la democrazia sia fragile“, ha spiegato il presidente. Da Mar-A-Lago, dove si trova dal giorno del suo addio alla Casa Bianca, Trump si è invece lasciato andare a una dichiarazione esultante: “Si è trattato di un’altra fase della più incredibile caccia alle streghe nel nostro Paese – ha detto – Il nostro storico, patriottico, meraviglioso movimento del Make America Great Again è solo all’inizio”. Nessuna parvenza di rimorso dunque nelle sue parole. Anzi, l’allusione al possibile ritorno alla vita pubblica. Si chiude quindi il processo a Donald Trump. Ma l’ombra del presidente continua ad allungarsi sulla politica e sulla società americana. La sua assoluzione potrebbe essere l’inizio di una nuova storia.

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