Uno su due ha ancora sintomi, come affaticamento, affanno da sforzo e palpitazioni. Le donne in particolare riferiscono la stanchezza con una frequenza quasi doppia. Una minima parte è ancora incapace di svolgere le normali attività e di lavorare e ha perso l’indipendenza o addirittura, in pochi casi, non è più autosufficiente. Importanti gli esiti a livello psicologico, con il 30% ancora alle prese con aspetti traumatici correlati a Covid anche se, per la stragrande maggioranza di loro, con risorse personali sufficienti per reagire. Sono questi i principali risultati dello studio clinico dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII Bergamo, che ha ideato e gestito, tra i primi centri al mondo, un percorso di presa in carico, cura e studio dei pazienti guariti dalla malattia innescata da Sars Cov 2 e passati dalla struttura di Bergamo, da quella di San Giovanni Bianco e dal Presidio medico avanzato alla Fiera della città tra le più colpite dall’infezione durante la prima feroce ondata. In totale sono stati valutati 1.562 pazienti che si sono ammalati tra febbraio ed agosto 2020 che sono stati sottoposti a controllo di follow-up tra maggio e ottobre. La pubblicazione riguarda i primi 767 di questi pazienti.

Il lavoro, intitolato “Surviving Covid-19 in Bergamo Province: a post-acute outpatient re-evaluation” è stato pubblicato su Epidemiology Infection, e porta la firma degli infettivologi del Papa Giovanni XXIII Serena Venturelli, primo autore, Marco Rizzi – direttore del reparto di Malattie infettive dell’Ospedale di Bergamo e chiamato dall’Oms al tavolo di lavoro internazionale creato su questo argomento -, e di tutti gli specialisti dell’ospedale impegnati nella cura dei pazienti e nello studio della malattia. Sono stati elaborati i dati raccolti al 31 luglio dal percorso di presa in carico avviato all’inizio di maggio alla Fiera di Bergamo, poco dopo la chiusura dell’ospedale da campo allestito in piena emergenza Covid a Bergamo e poi riaperto a novembre. “Questi ambulatori hanno offerto un percorso clinico di follow-up a circa 30 pazienti a settimana dimessi dai nostri reparti – ha spiegato Marco Rizzi –. Siamo stati tra i primi al mondo a proporre un percorso di questo tipo. Il nostro modello prevedeva due accessi: al primo il paziente veniva preso in carico dall’infermiere case manager che eseguiva un inquadramento delle sue condizioni cliniche, un prelievo ematico e un elettrocardiogramma. Nella stessa giornata il paziente eseguiva una radiografia al torace, delle prove spirometriche, una valutazione psicologica e una valutazione riabilitativa. Al secondo accesso il paziente veniva visitato da un infettivologo che valutava l’esito degli accertamenti eseguiti al primo accesso e decideva se era opportuno proseguire con ulteriori accertamenti. Due giorni a settimana erano presenti anche i colleghi pneumologi per le visite pneumologiche di secondo livello”.

Ben 394 (51,4%) sono stati i pazienti che hanno riferito di essere ancora sintomatici al momento della valutazione. Affaticamento, dispnea da sforzo e palpitazioni i principali sintomi riferiti. Sono ben 3341 i pazienti (44,1%) che lamentano ancora affaticamento, di cui 145 quelli affaticamento di grado moderato o grave. Le donne sono più sintomatiche e sofferenti degli uomini e riferiscono stanchezza con una frequenza doppia rispetto agli uomini. La dispnea auto-segnalata è presente in 228 pazienti (29,8%), di cui 52 con dispnea moderata o grave. Le prove di funzionalità respiratoria sono risultate patologiche nel 19% dei casi. 121 pazienti3 (16%) hanno perso indipendenza, anche se solo 6 di loro sono diventati moderatamente-gravemente dipendenti dagli altri. 13 pazienti4 (1,8%) non riescono ancora a svolgere le normali attività e lavorare e 186 pazienti (24,2%) prendono ancora i farmaci introdotti durante il ricovero, con gli anticoagulanti tra i farmaci più frequenti. 379 pazienti (49,4%) sono stati indirizzati a percorsi specialistici di cura nelle seguenti specialità: medicina respiratoria (281 pazienti; 36,6%), cardiologia (63; 8,2%), medicina fisica e riabilitazione (62; 8%) e neurologia (52; 6,8% ). 222 pazienti5 (30,5%) convivono ancora con sentimenti traumatici correlati a Covid e la quasi totalità6 (679 – 95,5%) trova il modo di reagire in modo adeguato all’accaduto. Da luglio è stato anche introdotto lo screening Montreal Cognitive Assessment (MoCa), visto il numero crescente di pazienti che lamentano difficoltà di concentrazione. I risultati però sono stati giudicati patologici solo in 2 casi, nonostante 69 riferiscano sintomi correlati. “La malattia ha lasciato in diversi casi esiti psicologici rilevanti, come ci aspettavamo dopo un evento così traumatico, anche a livello sociale, che ha scardinato tutte le nostre certezze – ha spiegato Ave Maria Biffi, referente per la Psicologia del Papa Giovanni degli ambulatori psicologici allestiti alla Fiera di Bergamo -. I pazienti raccontano in particolare la solitudine vissuta in ospedale, nell’impossibilità di vedere famigliari ed amici, e la paura data in larga parte dall’incertezza di quello che stava succedendo”.

Lo studio su Epidemiology&Infection

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