A questo punto si direbbe proprio che non accenni a chetarsi il lamento incontenibile e assordante di tutte le prefiche e gli ululatori funerari calciomani, attoniti per la sconvolgente scoperta che anche Diego Armando Maradona era – come tutti noi – “solo di passaggio”. E allora oso dichiarare che questo lutto planetario ha un po’ stufato, specie quando lo manovrano i commossi commentatori a ciglio umido per audience televisivo, social o cartaceo.

L’enfasi che tracima ben oltre ogni limite dell’umano, per ascendere al soprannaturale fideistico di un culto tribale. Con tutti gli eccessi verbali che lo stanno accompagnando: “dio dello stadio”, “il più grande”, “l’unico”, “dopo di lui il calcio è morto” (dunque, un decesso avvenuto già nel 1997, quando appese gli scarpini al chiodo. E sino a oggi?).

Consapevole di attirarmi l’esecrazione di tutte le mamme e i mammisti pallonari, mi permetto di parlare del povero defunto quale fenomeno umano, seppure in possesso di un magico piede sinistro; farlo da cagnaccio del centrocampo che ha trascorso la giovinezza pestando fango o polvere nei campetti gibbosi dei campionati minori.

Nella sua esistenza da baciato da una divinità calcistica, “il leggendario scorfano, lo sgorbio divino” – come lo definiva Gianni Brera – ebbe l’immensa fortuna di vivere nell’epoca in cui il football passava da gioco da stadio a spettacolo televisivo; in cui si perde lo sguardo panoramico per restringersi a quello della macchina da presa. Che per sua natura segue solo la sfera fatidica, trascurando necessariamente l’insieme; compreso il decisivo gioco senza palla.

Una condizione a tutto vantaggio di giocolieri e solisti, a danno dei facitori di gioco. Per cui un tessitore del calibro di Paulo Roberto Falcao, in terra di cicale come il Brasile, stava dietro – quanto a considerazione popolare – al Maradona brasiliano Arthur Antunes Coimbra, in arte Zico, o al fumista Socrates. Lo stesso vale per i monumentali Didi o Denis Law.

Lo stesso vantaggio televisivo vale per il suo gol proclamato “il più bello del secolo” (come se fosse meno bello quello realizzato alla Svezia nei mondiali del ’58 dal ragazzino Pelé, con sombrero a scavalcare un marcantonio di terzino e tiro al volo prima che la palla toccasse terra; o la meraviglia balistica di Marco Van Basten contro la Russia, agli Europei del 1988): quella corsa di 60 metri in 10 secondi nel Mondiale 1985, che ebbe la fortuna di svolgersi in mezzo a difensori di scuola inglese e al loro fair play.

Se ci fosse stato, non dico un difensore super come Claudio Gentile, ma uno discreto come Materazzi, il folletto sarebbe stato fermato con un immediato fallo tattico. Così non fu, per la correttezza albionica, e il gesto tecnico entrò nella leggenda anche grazie alla focalizzazione della telecamera.

Tanto che gli adepti al culto maradoniano trovarono modo di santificare pure la canagliata di poco prima – assolutamente non fair – della cosiddetta “mano de dios”. La furbata scorretta del gol segnato con il pugno, che venne fatto rientrare nella mitologia della divinità sportiva al di sopra di ogni giudizio morale.

Difatti Maradona, nato in una “Villa Miseria”, le bidonville alla periferia di Buenos Aires, aveva mantenuto quella furbizia nell’arrangiarsi di chi è cresciuto in ambienti di marginalità amorale; che lo portava a interpretare al meglio il ruolo demagogico del Masaniello (seppure miliardario) ad uso delle tifoserie più plebee dei “barrios bonearensi” o dei Quartieri Spagnoli partenopei: l’astuzia di impancarsi vendicatore della sconfitta argentina alle Malvinas-Falkland, la foga tribunizia nell’atteggiarsi a difensore del popolo partenopeo vilipeso dai biechi nordisti.

Pura blandizia delle folle plaudenti e di bocca buona, che si bevevano la reincarnazione in braghe corte e maglietta di Evita Duarte Peron, la Madonna dei descamisados; l’apparizione di un nuovo San Gennaro con i lineamenti da indio. E che se ne sentono orfane.

Resta la qualità calcistica eccelsa, ma non credo fosse inferiore quella non mediatizzata del suo conterraneo Omar Sivori. O quella del pur caratterialmente sciapo Leo Messi. Come non credo sensato stabilire gerarchie calcistiche atemporali. La scena degli anni ’50 è illuminata dalla saeta rubia Alfredo Di Stefano, che ha la fortuna di avere a disposizione il palcoscenico europeo del Bernabeu.

Amici argentini mi parlavano del talento ineguagliabile del suo contemporaneo Adolfo Pedernera, che spese i lampi della sua classe nei Millionarios di Medellin. E ben pochi lo seppero. Così va la vita. E non tutti i grandi furono riconosciuti tali per ragioni extracalcistiche. In questo periodo ho scoperto il talento di Roman Riquelme: straordinario, uno Zidane della Boca. Voi ne sapete qualcosa?

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