Sono molte le criticità che si porta appresso l’auto elettrica, specie quando si parla di produzione delle batterie e approvvigionamento dell’energia che le rifornisce, la stessa che solo per una piccola quota deriva da fonti rinnovabili. Questioni dibattute ormai da anni e che, però, i governi di molti Paesi tendono a ignorare. Ma che succede quando a mettere in dubbio i benefici dell’automobile elettrica sono gli stessi produttori?

È il caso di Mate Rimac, fondatore dell’omonimo marchio croato, una delle realtà più promettenti del settore, tanto che una multinazionale del calibro di Porsche si è affrettata ad acquisirne una sostanziosa quota. Il signor Rimac, soprannominato l’Elon Musk del Mediterraneo, ha recentemente rilasciato un’intervista a Quattroruote in cui afferma testualmente: “Se si vuole fare qualcosa di veloce, quasi immediato, per l’ambiente, bisogna smettere di mangiare carne. Le auto elettriche, e lo dice uno che le produce, non spostano nemmeno di un millimetro l’ago della bilancia”. In altri termini, si farebbe molto più per l’ecosistema (e per la salute dell’individuo) allentando il lavoro degli allevamenti intensivi piuttosto che incaponendosi sulle vetture a elettroni.

Tuttavia, quello di Mate Rimac non è un atto di onestà isolato. Infatti, dalla Svezia, arrivano pure le ammissioni di Polestar: si tratta di un marchio ad altissimo tasso di elettrificazione nato da una costola della Volvo e detenuto dal colosso cinese Geely (che è il maggiore azionista della Daimler e, quindi, della Mercedes-Benz). L’azienda si è data l’obiettivo di essere la più trasparente del settore automobilistico e, pertanto, ha deciso di pubblicare alcuni dettagli relativi al reale impatto climatico dei suoi veicoli elettrici nel corso del loro intero ciclo di vita, inclusa la produzione.

“Le case automobilistiche in passato non sono state chiare con i consumatori circa l’impatto ambientale dei loro prodotti”, afferma Thomas Ingenlath, amministratore delegato di Polestar. Un impatto ambientale che “non è abbastanza buono”. Ecco perché l’azienda ha condotto uno studio in cui mette a confronto l’impronta di carbonio generata dalla nuova Polestar 2, modello 100% elettrico, con quella che deriva da un veicolo termico di taglia paragonabile, la Volvo XC40.

Secondo le analisi del costruttore svedese, per la fabbricazione della Polestar 2 si immettono nell’ambiente 26 tonnellate di anidride carbonica, circa 10 in più rispetto alla Volvo XC40 alimentata a benzina: questa grande differenza è principalmente causata del processo di produzione della batteria ad alta intensità energetica. Dopo di che, se e solo “se” alimentata con energia proveniente da fonti rinnovabili, l’auto elettrica comincia a dare reali benefici ambientali rispetto a quella termica dopo circa 50.000 km di utilizzo.

Tuttavia, si tratta di una stima estremamente ottimistica, perché per pareggiare prima possibile il conto delle emissioni con l’auto termica – e quindi, iniziare ad avere reali benefici ambientali – Polestar presuppone che l’auto venga rifornita di elettricità esclusivamente derivante da energia eolica. Il che appare molto difficile se non impossibile, considerato che quest’anno l’obiettivo dell’Europa è far sì che il 20% dell’energia consumata provenga dalle rinnovabili (incluso il fotovoltaico). Non solo, se nel 2018 l’energia rinnovabile rappresentava il 18,9% di quella consumata nell’UE, nel medesimo anno la quota di energia da fonti rinnovabili utilizzata nel settore dei trasporti ha raggiunto appena l’8,3 %.

Quest’ultima percentuale, secondo i piani europei, potrebbe salire al 10% quest’anno: attenzione, però, perché nel calcolo sono inclusi anche i biocarburanti liquidi, l’idrogeno e il biometano, oltreché l’energia elettrica “verde”. Giova ricordare, poi, che il target europeo in materia di energia è che le rinnovabili raggiungano il 32% entro il 2030 – dato che potrebbe essere ritoccato al rialzo entro il 2023 – e che entro quell’anno la quota di energia da fonti rinnovabili utilizzata nel settore dei trasporti raggiunga il 14%. Insomma, siamo ben distanti dal poter rifornire la batteria di un veicolo elettrico con energia 100% rinnovabile.

E, anche se fossimo già in grado di farlo, rimane sul tavolo un dato importante: secondo la International Energy Agency (IEA), nel mondo le emissioni di CO2 derivanti dai trasporti valgono circa il 24% del totale, includendo aerei e navi. I trasporti su strada da soli, invece, pesano per circa il 18% delle emissioni di CO2 globali. Si sta facendo abbastanza per rendere carbon neutral il rimanente 82% che non dipende dai trasporti su strada, ovvero dalle auto elettriche alimentate con fonti 100% rinnovabili?

Ci sono, infine, una serie di considerazioni importanti da fare, che hanno a che fare meno con l’ambiente e più con la morale. E che la stessa industria automobilistica fatica a gestire. Come sottolinea (su www.ildolomiti.it) Raffaele Crocco – presidente dell’associazione “46° Parallelo di Trento” e coordinatore del progetto “Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo” – esiste un problema di approvvigionamento delle materie prime utilizzate per produrre batterie: “Le miniere di litio conosciute – a parte nuovi enormi giacimenti trovati in Messico – si trovano in Cile, Argentina – nei deserti salati – e in alcuni Paesi Africani, qui controllati da società cinesi. Ovunque, a lavorare nelle miniere sono anche bambini, migliaia, che oltre ad essere sfruttati, muoiono per le intossicazioni del minerale. Non esistono certificazioni di sorta, le case automobilistiche – come per il coltan nei cellulari – usano minerale che è sempre risultato di sfruttamento. Una catena perversa che alimentiamo ad ogni nuovo acquisto”.

In effetti, fra i molti costruttori che producono auto elettriche, Polestar e BMW sono fra i pochi che si stanno impegnando affinché i powertrain delle loro elettriche siano prodotti in modo sostenibile. Non solo, la casa tedesca è al lavoro su un sistema blockchain che permetta di tracciare dove e come sono prodotti le materie necessarie per costruire l’auto, incluso il litio delle batterie. Ma si tratta, per il momento, di eccezioni. Infine, rimangono degli interrogativi sullo smaltimento dei battery pack esausti e il contestuale recupero delle materie prime, economicamente svantaggioso. Tutte questioni a cui costruttori e governi dovrebbero dare delle risposte.

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