di Antonio Marino

Che sia proporzionale o maggioritario, il nuovo sistema elettorale non può prescindere dalle preferenze. E’ questa la sfida dirimente dopo il successo del Sì al referendum. Il principio per cui i rappresentati devono poter scegliere i propri rappresentanti è sacrosanto; del resto, la stessa Corte costituzionale ha affermato che le liste lunghe e bloccate sono incostituzionali.

Si dirà: il rischio che si corre introducendo le preferenze è favorire il voto di scambio. Dunque, seguendo tale ragionamento si dovrebbe rinunciare all’applicazione di un principio di civiltà giuridica per timore di eventuali distorsioni. Lo stesso ragionamento di chi si oppone al reddito di cittadinanza senza addurre valide argomentazioni: rinunciamo perché ci sono i furbi e pazienza se poi ci rimettono coloro che realmente versano in condizione di povertà.

La soluzione non è certo questa ma prevedere correttivi per arginare possibili episodi di corruzione e voto di scambio, quale è per esempio l’individuazione di collegi elettorali più piccoli. La crisi dei partiti è derivazione, oltre che dell’abbandono della questione morale, della pessima scelta della classe dirigente. La circostanza che, attraverso le liste bloccate, i partiti poi possono liberamente scegliere chi siederà Parlamento rilassa, per così dire, le forze politiche nella selezione dei rappresentanti. Le preferenze permetterebbero di risolvere, o quanto meno attenuare, questo vulnus.

I partiti, per evitare un crollo dei consensi, sarebbero costretti ad alzare il livello dell’attenzione e si rinsalderebbe il rapporto elettore-eletto non più ridotto ad una mera logica numerica ma espressione di un tangibile legame tra rappresentante e rappresentato. Al termine della legislatura, poi, i cittadini saprebbero valutare se il politico ha agito bene o meno e, ove si ricandidasse, confermargli la fiducia o meno. Le preferenze, in altre parole, favorirebbero la riconoscibilità del politico e ne aumenterebbero la pressione ad agire non per interessi privati ma nell’esclusivo interesse dei cittadini.

Altro punto di favore: le preferenze disincentiverebbero condotte censurabili come il cambio di casacca, troppo elevato sarebbe il rischio per il parlamentare di perdere credibilità davanti al corpo elettorale. Le preferenze eliminerebbero anche il mal costume delle pluricandidature: col Rosatellum, infatti, soprattutto i big di partito presentano la propria candidatura non solo nell’uninominale ma anche nel listino proporzionale per garantirsi un paracadute, in caso di eventuale sconfitta nella corsa all’assegnazione del seggio col maggioritario, che viene attribuito al candidato che prende anche solo un voto in più dell’avversario.

In tal modo, a mio parere, anche i leader dei partiti rimetterebbero realmente al popolo il giudizio sul proprio operato e avrebbero un’investitura rapportata al consenso, sostanziale e non più solo formale. Dunque, avremmo finalmente un Parlamento effettivamente legittimato, piena espressione della società che rappresenta.

In Italia il voto di preferenza manca dalle politiche del 1994, quando il Mattarellum superò il sistema elettorale approvato nel ‘46 che prevedeva la possibilità per l’elettore di esprimere fino a 4 scelte. E’ passato troppo tempo da allora, è il momento di tornare a dare piena voce al popolo. La politica batta un colpo.

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