Se la cantano e se la suonano da soli. Nessuno la ascolta. Ma soprattutto nessuno la fa ascoltare (nel senso di approfondire la questione).

Il fatto: negli ultimi vent’anni, la contabilità delle banche (e la redazione dei loro bilanci) è basata sul valore equo o “fair value” che consiste nel misurare beni e passività tenendo conto del loro valore attuale. Uno scostamento importante rispetto al metodo tradizionale, vecchio di secoli, che imponeva di tenere i registri contabili sulla base del costo storico.

Il fair value viene definito come “il corrispettivo al quale una attività può essere scambiata o una passività può essere estinta, tra parti consapevoli e disponibili, in una operazione tra terzi”. Tradotto: il fair value non è un prezzo negoziato in uno scambio effettivo, bensì il valore stimato (da chi redige il bilancio) come “ragionevole” per una ipotetica transazione di mercato.

La contabilità del fair value è stata ritenuta, però, responsabile di alcune pratiche discutibili, prevalentemente le metriche di performance dei top manager utilizzate per l’assegnazione dei bonus, attuate nel periodo immediatamente precedente alla crisi finanziaria del 2008. La crisi finanziaria degli ultimi anni, amplificata post Covid, dovrebbe metterla nuovamente sotto attacco.

Soffermatevi su questi tre scenari.

a) La banca è esposta ad un rischio di interesse: se i tassi diminuiscono, il margine di interesse diminuisce e si hanno conseguenze negative sul reddito e sul patrimonio. I bonus dei top manager, calcolati sull’utile netto, diminuiscono.

b) Se i crediti (prestiti effettuati alla clientela) sono valutati al fair value, il peggioramento del rating dei finanziamenti effettuati comporta una riduzione del loro valore economico e quindi un peggioramento del reddito o del valore economico del patrimonio della banca che li detiene in portafoglio. Anche in questo caso, i premi dei manager diminuiscono.

c) Se invece è il rating della banca a peggiorare, il fair value delle obbligazioni iscritte al passivo diminuirebbe, generando un aumento del valore economico del patrimonio. Tale risultato sarebbe palesemente assurdo, in quanto la banca registrerebbe un miglioramento della propria solvibilità proprio quando il suo merito creditizio peggiora. In questo caso i mega-bonus dei dirigenti apicali, se calcolati su tale parametro, aumenterebbero.

Secondo voi, negli ultimi anni, quale dei tre scenari è stato utilizzato come metrica di calcolo delle performance dei dirigenti? E soprattutto quei tre scenari potrebbero rappresentare “forti motivazioni” per edulcorare i bilanci?

Un ultimo particolare: uno studio di qualche anno fa pubblicato sul Journal of Accounting and economics dell’Harvard Business School intitolato “Towards and Understanding of the role of standards setters in standard settings” indica una spiegazione della scelta del fair value come criterio di calcolo delle poste di bilancio delle banche. Lo studio si sofferma su tutti i membri del Financial Accounting Standards Board (Fasb), l’organo che ha fissato gli standard dei principi contabili, fin dalla sua introduzione nel 1973.

E sapete cosa si è scoperto? Il 25% circa dei professionisti che proponevano l’utilizzo di metodi legati al fair value erano appartenuti al settore dei servizi finanziari. Questo significa forse che il processo di selezione dei membri del Fasb è stato fuorviato dai loro interessi particolari in ambito finanziario?

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