Provato il brivido del lockdown e perennemente in bilico tra libertà di movimento e inevitabili restrizioni, il pensiero corre allo smartworking come panacea per la continuità delle attività produttive, dei servizi pubblici e privati, dei mestieri che – di più diverso genere – non richiedono la presenza fisica del prestatore d’opera.

Grazie alla possibilità di lavorare da casa il mondo non si ferma e il rallentamento (spesso non da poco) viene digerito più facilmente di una paralisi totale. Ma è solo il calo del ritmo la controindicazione dell’operare da remoto?

L’euforia dell’illusione di aver risolto la questione ha indotto torme di sedicenti guru a dissertare sulla “agilità del lavoro” e a proclamare che – come John Belushi nei panni di Jake Blues quando urla “Ho visto la luce!!!”– si può guardare con serenità al futuro.

L’entusiasmo di chi (se le chiacchiere facessero camminare i treni) potrebbe cimentarsi in reti stavolta ferroviarie non ha forse (ma la mia è un’impressione personale) preso in considerazione i problemi di sicurezza il cui conto viene sempre presentato in un secondo drammatico momento.

La nonchalance ha connotato le scelte di imprese ed enti. Il lavoratore è stato precauzionalmente lasciato a casa ed autorizzato a svolgere le mansioni di competenza utilizzando la propria connessione e – in caso di mancata dotazione di un laptop aziendale – adoperando il personal computer di casa con l’unica accortezza di qualche integrazione software per collegarsi ad applicazioni e database interni.

L’uso promiscuo delle dotazioni domestiche (impiegate per iniziative “d’ufficio”) e di quelle fornite dai datori di lavoro (“già che si sono, fammi vedere quel sito o che si dice su Facebook….”) ha segnato l’inevitabile degrado.

Un PC usato dal figliolo adolescente con avventurosa navigazione online, download spericolati di software taroccati, videogames dalle mille controindicazioni e tante altre installazioni a rischio, non è certo lo strumento ideale per interfacciare le risorse informatiche di un’impresa o di una realtà pubblica. Il datore di lavoro raramente ha ritenuto di dover riflettere in proposito e il dipendente si è sentito legittimato a proseguire stante l’Ok dei suoi superiori.

Ogni giorno si è così avuto modo di leggere di “incidenti” che hanno messo knock-out i sistemi informatici di organizzazioni che mai nessuno aveva potuto immaginare così vulnerabili. I casi di ransomware sono cresciuti a dismisura e a farne le spese sono state le realtà folgorate dall’indebita cifratura dei propri dati ma anche clienti, utenti e semplici cittadini inibiti dal poter fruire dei servizi normalmente erogati dalla “vittima”. Data breach e “esfiltrazioni” varie hanno poi compromesso anche da noi la privacy di milioni di persone.

In termini pratici la granularizzazione delle architetture imprenditoriali e istituzionali – determinata dal trasferimento delle attività dalle rispettive sedi alla moltitudine di abitazioni – ha tramutato sale da pranzo, camere da letto e persino cucine in propaggini del sistema nervoso di appetibili bersagli di hacker e criminalità organizzata.

Se nell’appartamento ci sono più “smart workers”, il router in uso veicola simpaticamente le informazioni di più aziende e, se in quella rete locale si è abituati – come potrebbe essere ovvio – a condividere tutto, la riservatezza sembra perdere il vigore che invece sarebbe indispensabile. Se poi nel condominio c’è qualcuno che si aggancia alla wi-fi del vicino per scroccare la connettività ad Internet, il gioco si fa ancor più divertente…

Un ipotetico signor “Tizio”, volenteroso “impiegato a distanza”, non si limita a prestare le proprie cose al suo “padrone”, ma accetta che la sua casa sia avamposto dell’organizzazione di appartenenza, assumendosi una certa fetta di responsabilità della condotta di eventuali malfattori digitali che dal suo PC si intrufolano nel sistema aziendale.

Ma cosa capita se il brigante tecnologico entra da un server dell’impresa o dal computer di un altro telelavoratore e finisce sul dispositivo di Tizio? Che fine fanno i suoi dati, inevitabile preda del birbaccione di turno?

E se il free climber telematico passa dalla macchina di Tizio a quella – connessa alla medesima wireless – della moglie e della figlia che a loro volta sono collegate alle rispettive aziende?

Qualcuno parlerà di reti private virtuali, di tunnelling, di impermeabilizzazione dei canali di comunicazione. Se non ci fosse il Covid, probabilmente i profeti dell’ “e che ci vuole, dai…” starebbero già sproloquiando in qualche convegno per convincere il sonnolento uditorio che i rischi sono solo fantasie degli immancabili pessimisti.

Poi, al verificarsi di qualche evento spiacevole, si tireranno fuori le immancabili statistiche assolutorie che diranno che percentualmente certi episodi sono irrilevanti… Lo si dica a chi gli è già toccato in sorte…

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