Il presidente degli Stati Uniti è positivo al Coronavirus e in quarantena insieme a sua moglie Melania. Donald Trump fu il primo sostenitore di una cura a base di idrossiclorochina. Molti studi scientifici sono contro questo farmaco (l’ultimo la paragona al placebo), molti meno a favore, tanto da aver portato la comunità scientifica ad una spaccatura, sia in Europa che negli Usa. In Cina, la clorochina (farmaco analogo) è inserita nelle linee guida contro Covid 19, in Europa e Usa invece, ormai è vietata. Quale sarà il trattamento farmacologico scelto da Trump, dipenderà dalle prossime ore. Ilfattoquotidiano.it ha intervistato Guido Rasi, il direttore esecutivo di Ema– l’Agenzia europea del farmaco – , la massima autorità europea sui farmaci, per fare un quadro su tutti i principali trattamenti attualmente considerati più efficaci dalla scienza. Per Rasi “gli anticorpi monoclonali con attività antivirale sono al momento la promessa più concreta per arricchire il ventaglio di opzioni terapeutiche e guadagnare tempo in attesa dell’arrivo dei vaccini. In sviluppo ci sono anche dei nuovi antivirali che potrebbero dare risultati. L’esperienza e i dati accumulati con desametasone indicano che uno spazio per i farmaci che regolano la risposta del sistema immunitario c’è, si dovrà probabilmente chiarire meglio la direzione di marcia con ulteriori studi”.

Secondo una recente pubblicazione statunitense, la “lactoferrina” avrebbe un’efficacia preventiva contro COVID-19, inibendo la replicazione di Sars-CoV-2. Cosa ne pensa? È un trattamento che può essere aggiunto alle cure standard?
Una premessa che mi sembra doverosa riguarda il ruolo della conoscenza della malattia, in particolare all’inizio della pandemia. Oggi sappiamo che Covid 19 è caratterizzata da tre fasi. La prima, in cui il virus si replica ad altissima velocità ma durante la quale vi può essere una totale assenza di sintomi. La seconda fase, quella intermedia, è caratterizzata da una reazione infiammatoria dell’organismo, durante la quale si possono sviluppare ad esempio infezioni polmonari e difficoltà respiratorie. Poi c’è la terza fase, quella in cui si sviluppa una importante infiammazione sistemica, causata dalla iper-reazione del sistema immunitario e che può portare a diverse conseguenze fatali. Quando sono stati svolti la maggior parte degli studi su questa malattia la sua progressione non era ancora nota e di conseguenza non lo era neanche la stratificazione dei pazienti a seconda dello stadio in cui si trovavano. Oggi ne sappiamo un po’ di più e stiamo iniziando a capire quali farmaci funzionano meglio in quali fasi della terapia. Un altro fattore negativo per la conoscenza del Covid è stata l’eccessiva frammentazione degli studi clinici. Si sono disperse le energie della comunità scientifica con una quantità di studi, spesso di piccole dimensioni, che non hanno permesso di tratte conclusioni utili. Un maggiore coordinamento avrebbe consentito di convogliare gli sforzi e di concentrare le energie. Tornando allo studio sulla lattoferrina, in un contesto come quello in cui ci troviamo è fondamentale saper distinguere gli studi che hanno un potenziale tale da poter portare alla decisione di autorizzare un farmaco da quelli che indicano una strada promettente, ma che hanno bisogno di conferme. Lo studio segnalato contiene sicuramente degli elementi di interesse, ma si tratta di evidenze preliminari e di intuizioni che derivano da osservazioni svolte in laboratorio. Ma per stabilire se una sostanza possa essere sicura ed efficace nell’uomo e in quali dosi, c’è bisogno di studi preclinici e clinici che possono confermare o smentire l’ipotesi di studio. Questo percorso di sviluppo farmaceutico purtroppo richiede spesso molti anni ma garantisce che i farmaci immessi sul mercato abbiano un rapporto positivo tra benefici e rischi.

Il plasma-iperimmune, sta funzionando? La Fda ha approvato l’uso di emergenza in tutti gli ospedali degli Stati Uniti. In Europa, a quali conclusioni scientifiche siamo arrivati? Si può usare?
Nel caso del plasma iperimmune, ci troviamo di fronte a un metodo che può dare qualche risultato ma che è condizionato da una serie di fattori. Innanzitutto, la presenza di un numero elevato di pazienti guariti dai quali poter prelevare gli anticorpi seguendo i protocolli di sicurezza e con uno screening adeguato. È evidente che ciò può avvenire solo in centri che dispongono di poli ematologici ben attrezzati. Per quanto riguarda la sua efficacia contro il Covid 19 ci troviamo di fronte, ancora una volta, a un problema di qualità del dato. Non abbiamo al momento studi di qualità, studi randomizzati con campioni di grandi dimensioni e con metodologia controllata, che ci permettano di trarre delle conclusioni certe sull’efficacia. Inoltre, da questi studi ci aspettiamo anche delle risposte sulla fase della malattia in cui l’impiego del plasma potrebbe essere consigliabile.

Sugli anticorpi monoclonali: ci sono 3 società farmaceutiche in fase 3, ampia sperimentazioni sull’uomo. Ecco, potrebbero arrivare a dare risposte tangibili, probabilmente prima del vaccino. Gli anticorpi monoclonali, possono rappresentare la soluzione definitiva contro Covid?
Gli anticorpi monoclonali si posizionano esattamente nella stessa potenziale finestra terapeutica del plasma iperimmune e rappresentano sicuramente una strategia promettente. Sono basati sull’utilizzo di anticorpi presenti nel plasma dei guariti che vengono isolati e riprodotti in grandi quantità con metodi industriali. Rispetto al plasma iperimmune presentano alcuni vantaggi e alcuni svantaggi. Da un lato non sono disponibili immediatamente e localmente come il plasma ma dall’altro la produzione industriale e standardizzata e la maggiore facilità di impiego dovrebbero renderli più accessibili sia dal punto di vista del costo che da quello della distribuzione più facile e capillare. Quando gli studi autorizzativi saranno conclusi, se passeranno il vaglio delle agenzie regolatorie, potrebbero certamente trovare una collocazione terapeutica. Ma è importante non dimenticare che il loro apporto è limitato. Dal punto di vista temporale, ad esempio, l’immunità che potrebbero conferire a persone sane durerebbe qualche mese. Neanche gli anticorpi monoclonali possono essere considerati alternativi ai vaccini dal punto di vista del controllo della pandemia a lungo termine.

Il desametasone, è un tipo di steroide utilizzato per ridurre l’infiammazione in una molteplice serie di casi. Può essere somministrato sia in fase precoce che in fase avanzata di Covid?
L’efficacia di questo medicinale che interviene nel regolare la risposta immunitaria, è stata dimostrata dai dati del trial Recovery, coordinato dall’Università di Oxford. Dai dati è emerso che il desametasone è efficace nei pazienti che presentano infezione moderata o severa e che hanno bisogno di ossigeno. L’uso in fase precoce non è supportato dalle evidenze mentre quello in pazienti con infezione lieve, che non richiedono terapia con ossigeno o ventilazione meccanica, potrebbe essere addirittura dannoso.

Il 21 agosto, sul Journal of american medical association (Jama), è apparso uno studio sul remdesivir (farmaco approvato ufficialmente da Ema) su una coorte di oltre 500 pazienti, in cui si conclude che “tra i pazienti con Covid moderato, quelli randomizzati a un ciclo di 10 giorni di remdesivir non hanno mostrato una differenza statisticamente significativa nello stato clinico rispetto all’assistenza standard a 11 giorni dopo l’inizio del trattamento”. Cosa significa?
Lo studio mostra che l’impatto di remdesivir in pazienti con Covid 19 moderato non è particolarmente marcato, nonostante lo stesso studio evidenzi un’efficacia significativa per i cicli di 5 giorni di terapia. In generale l’indicazione che si può trarre da questo studio è che il beneficio apportato da remdesivir in questa popolazione appare piuttosto limitato.

Uno dei farmaci più dibattuti, in questa pandemia, è l’idrossiclorochina (Hcq), soprannominata anche cura “Trump”. La sicurezza di Hcq è citata nelle conclusioni di una pubblicazione scientifica riportata da EMA, “non ci sono rischi eccessivi per trattamenti brevi, ma si pone il dubbio sui mix farmaceutici tra Hcq e antibiotici. Quindi, idrossiclorochina, da sola, per cicli brevi – circa 7 giorni nel trattamento contro Covid 19 e a dosi controllate, non è legata a rischi significativi per la salute, corretto?
L’Ema ha invitato sin dall’inizio a una certa prudenza nell’utilizzo della clorochina e dell’idrossiclorochina, raccomandandone l’uso solo all’interno di studi clinici controllati. Nel corso della pandemia questi due farmaci sono stati utilizzati in contesti ospedalieri sulla base di dati che si basavano soprattutto su osservazioni in vitro. In diversi Paesi dell’Unione Europea e anche nel trial Solidarity coordinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità le sperimentazioni che riguardavano questi farmaci sono state sospese a causa di segnali legati alla sicurezza dei pazienti. Se guardiamo al quadro complessivo, l’idrossiclorochina (e per estensione la clorochina) non ha mostrato efficacia in studi clinici di dimensione appropriata e nuovi studi di laboratorio hanno mostrato che in effetti sia l’idrossiclorochina che la clorochina non sono attive contro il SARS-CoV2 in linee cellulari umane e in modelli animali. Questi risultati confermano la linea della prudenza adottata da Ema

Quali sono i trattamenti farmacologici dai quali ci si aspetta, nel prossimo futuro risultati importanti? Quali i più promettenti?
Pur con tutti i pregi e i limiti di cui si è ampiamente discusso, gli anticorpi monoclonali con attività antivirale sono al momento la promessa più concreta per arricchire il ventaglio di opzioni terapeutiche e guadagnare tempo in attesa dell’arrivo dei vaccini. In sviluppo ci sono anche dei nuovi antivirali che potrebbero dare risultati. L’esperienza e i dati accumulati con desametasone indicano che uno spazio per i farmaci che regolano la risposta del sistema immunitario c’è, si dovrà probabilmente chiarire meglio la direzione di marcia con ulteriori studi.

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