Devo essere sincero ed evitare la retorica patriottarda.

Avrei preferito che Antonio Conte sciogliesse il suo rapporto con l’Inter.

Da tifoso del Napoli avrei voluto una Inter più debole e meno competitiva.

Perché Antonio Conte è un vincente e l’anno prossimo, solo Dio sa quanto vorrei essere smentito, lo scudetto non gli sfuggirà.

Aveva bisogno di mettere in riga alcuni dirigenti e costringere il presidente cinese a promettergli, nonostante le formali smentite di rito, i cambiamenti culturali da lui suggeriti.

Sì perché, così come aveva riferito alcuni giorni fa, non si trattava (solo) di mercato ma di un approccio manageriale basato su una cultura che all’Inter manca(va).

All’Inter le vittorie arrivano mediamente ogni 10 anni. Un tempo troppo lungo per Conte.

Non è un simpaticone, è un piagnone al cui confronto Sarri è Totò. Ha qualche scheletro nell’armadio ma è uno dei pochi che in breve tempo sa trasformare un gruppo in una squadra.

Concetti che nella gestione delle organizzazioni sembrano simili ma non lo sono.

Il comportamento di Conte degli ultimi mesi aveva solo questo questo obiettivo. Far capire al management dell’Inter che avere solo una finalità comune (come avviene in un gruppo) non equivale a vincere. E per questo, di solito, nelle organizzazioni si aspetta tanto prima di alzare un trofeo.

Julio Velasco in un momento formativo presso la mia ex azienda, oltre 15 anni fa, ci disse che ai suoi giocatori e dirigenti che dichiaravano di essere un buon “gruppo” (ma non vincevano), riferì testualmente: “Se non saprete lavorare con spirito di squadra con me… vi metterò in panchina a fare gruppo”.

Il gruppo in una azienda (ma non solo) è indispensabile per la produzione delle idee; nel gruppo si discute, si media, si negozia, si opina, si prendono le distanze, si ammettono le eccezioni; il concetto di gruppo privilegia l’attenzione all’assetto interno nella collaborazione fra persone, alla loro organizzazione per ben lavorare (più che per gareggiare!!!).

Conte ha voluto, invece, lanciare un messaggio preciso: oltre ad una finalità comune, quella società deve competere (gareggiare) con il mercato. Deve diventare squadra.

Il concetto di squadra evoca l’ambiente esterno della competizione e della sfida!

Nella squadra non si discute (non c’è posto per la discussione una volta deciso cosa fare), non si media (perché la mediazione è sempre un abbassamento del livello di eccellenza), non si negozia (perché se l’obiettivo è ben chiaro a tutti, non c’è bisogno di modificarlo), non si opina (le opinioni non danno quasi mai risultati concreti), non si prendono le distanze (chi le volesse prendere deve uscire dalla squadra), non si ammettono le eccezioni (o se ci sono si risolvono in un secondo momento… a risultato acquisito).

Ottenere dalle persone abituate a lavorare in gruppo, un comportamento da squadra non è facile e la sua realizzazione non è immediatamente conseguente alle dichiarazioni.

Ci vuole tempo, serve una selezione severa delle persone, è un problema di educazione non spontanea che deve essere indotta con la convinzione, con la consapevolezza, con la formazione, con la testimonianza più che con la costrizione. Ma a Conte la variabile tempo non piace.

Il concetto di squadra di Conte implica che le persone di cui essa è costituita devono avere immediata coscienza di partecipare a una sfida, alla fine della quale o c’è la vittoria o c’è la sconfitta!

Il messaggio di Conte a Steven Zhang è stato chiaro: tutti i manager sanno (o possono) lavorare in gruppo; non tutti sanno o possono lavorare in squadra.

Avrà ragione lui. Purtroppo.

Articolo Precedente

Conte-Inter, lo strano matrimonio continua: perché è la decisione più logica

next