Per capire la dimensione dell’incubo in cui è piombata Beirut alle 18.08 di ieri non serve nemmeno avvicinarsi al luogo dell’esplosione, nel porto cittadino, nodo cruciale per un Paese stremato dalla crisi che vive solo di importazioni. Una densa nube di colore rosa si alza in cielo e viaggia compatta verso le colline che circondano la città, sorvolando le finestre e porte sfondate di edifici che distano anche 12 chilometri dall’esplosione. Progressivo ed inesorabile, camminando verso il mare, è l’aumento dei visi stravolti e insanguinati, le stazioni di benzina in fiamme, le automobili schiacciate dagli alberi, gli ingressi di noti esercizi commerciali che si fa fatica a riconoscere.

Già nei pressi del ponte che separa il confine orientale della municipalità di Beirut dall’affollata Bourj Hammoud lo scenario è apocalittico, con un continuo via vai di disperazione diffusa, emorragie affrontate in autonomia, persone intrappolate, macchine capovolte, l’aria grigia come il cemento. Imboccando Armenia street, ed entrando così nel quartiere beirutino di Mar Mikhail, famoso per i pub e la movida permanente, si viene accompagnati da urla sempre più intense, da feriti sempre più gravi trasportati da chi riesce, e la strada si fa impraticabile per la quantità di macerie.

Mar Mikhail e il porto distano meno di un chilometro, ma sul quartiere in cui di solito a quell’ora i locali iniziano a mettere la musica sembra appena caduto un meteorite. I pianti di chi ha appena perso tutto sembrano avere un volume più alto del suono degli allarmi impazziti, delle lamiere su cui passano automobili isteriche. La sede dell’Electricité du Liban è stata trapassata, si riesce a vedere dall’altra parte. La vicina Rue Gouraud, costellata di vecchie case tradizionali che portano ancora i segni “didattici” dei proiettili sparati durante la guerra civile, è del tutto insondabile, capovolta su se stessa. Non esiste più.
Poco più a sud, nell’ancor più lontana Tabaris, un’area ai margini di Beirut Est, praticamente nei pressi di quella che durante la guerra civile era la Green line, ci sono due corpi senza vita, coperti da un lenzuolo, di chi era abbastanza lontano dalla detonazione ma non dall’onda d’urto, che ha divelto la sede centrale della Bank Byblos, spazzando via tutto quello che si trovava nei pressi. “Ecco le foto, sono morte almeno altre quattro persone qui, le hanno portate via poco fa”, spiega una guardia giurata mostrando il cellulare, mentre si tampona una ferita sul collo. Sull’asfalto documenti e faldoni schizzati dalle finestre degli uffici, mentre membri della General Security provano a deviare il traffico.
La grande arteria che costeggia il porto e lo tiene relativamente lontano da Beirut est è una zona di guerra. Le ambulanze sono le uniche cose che si muovono, tra i fumi scuri che vengono dal molo e spettri immobili di persone in trance. Se si rivolgono le spalle al mare, mentre cala l’oscurità, è difficile capire dove ci si trovi: di tutti gli edifici che costeggiano la Charles Helou – il nome della strada – sono rimasti gli scheletri, a volte nemmeno quelli.
“Non sono decine i morti, sono centinaia, ne abbiamo tirati fuori 18 solo da lì, adesso”, avverte un operatore della protezione civile, mentre indica quel che è rimasto di un vecchio stabile. Le ambulanze vanno in giro a raccogliere feriti, schivando moto e auto disseminate, mentre un membro dell’equipaggio si sporge dal finestrino e con un megafono invoca donatori di sangue. Il Libano era in lockdown per l’aggravarsi della pandemia, migliaia di persone sono rimaste nelle case che gli sono crollate addosso.
Un uomo in canottiera, seduto davanti ad una serranda che non serra più nulla, se non la carcassa di quello che era il suo negozio di frutta e verdura, fissa l’orizzonte mentre divora una sigaretta: un mese fa ha perso la moglie, ha una bambina con la leucemia, un altro figlio morto in guerra e sembra assecondare un destino infame. Fa un rapido bilancio della sua vita e recita ciclicamente la stessa preghiera, non si dà e forse non cerca nemmeno ulteriori spiegazioni.
Sul guard rail che delimita lo stradone e guarda verso l’incendio ancora in corso al molo, ci sono cittadini che riprendono coi cellulari quel che rimane dell’Hangar 12, epicentro dell’esplosione. Nessuno dice una parola, tutti assistono in silenzio all’apocalisse così vicina, arrivata per dare il colpo di grazia ad una città che sembra non avere pace.
Una città in cui i lampioni hanno smesso di funzionare da un mese, seguiti a ruota da decine di semafori, per via dell’aggravarsi una crisi economico-sociale senza precedenti (entro fine anno il 60% vivrà sotto la soglia di povertà), preceduta da un default tecnico e crudelmente incalzata dalla pandemia di Covid-19, con oltre 3000 casi nell’ultimo mese. Un’ulteriore beffa arriva dall’annuncio del ministro dell’Economia Raul Nehme, il quale dichiara che tutto il grano depositato nei granai del porto è contaminato e inutilizzabile. Ma il sindacato degli importatori dei cereali rassicura: al momento non c’è penuria né di pane, né di grano.
All’entrata del porto è schierato l’esercito, che prova a dirigere il traffico di ambulanze colme di morti e feriti. Davanti al cancello giacciono una decina di corpi in attesa di essere portati via da qualche mezzo che abbia spazio al suo interno, mentre gli operatori sanitari provano a rianimare chi sembra messo meno peggio. Non fanno in tempo a dedicarsi a uomini dilaniati che ne arrivano altri. I morti sono centinaia, i feriti diverse migliaia, non lontano dal porto c’è il waterfront, dove si va a fare jogging.
“Quel che è accaduto oggi è più grande del Libano stesso. I responsabili pagheranno caro”, tuona alla tv il primo ministro Hassan Diab, mentre dichiara l’indomani giornata di lutto nazionale. I principali ospedali della città annunciano la saturazione, alcuni di essi curano i feriti nei parcheggi, altri dimettono pazienti meno prioritari. Il direttore della Lebanese American University è il primo ad invitare all’evacuazione della città, per via della diffusione nell’aria di residui tossici delle 2750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinato 7 anni fa – in circostanze poco chiare – nel deposito esploso.
Non sono ancora chiare le cause della deflagrazione nel magazzino, che al momento appare colposa e fa impallidire quella che nel 2005 uccise il primo ministro Rafiq Hariri. In serata il presidente della Repubblica Michel Aoun ha convocato il Supremo Consiglio di Difesa, che due ore dopo dichiarerà lo stato di emergenza e designerà la capitale come “città disastrata”. Ma quella su cui cala la notte non sembra più nemmeno una città, e questo è molto più di un disastro.
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