Dalle nanoparticelle sembra arrivare la risposta per la cura di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, corea di Huntington, ma anche per l’epilessia, traumi cerebrali e ictus. È quanto afferma una ricerca internazionale, pubblicata sulla rivista ACS Nano, coordinata da Roberto Fiammengo, ricercatore del Centro di Nanotecnologie Biomolecolari dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Lecce.

Il motivo del successo delle nanoparticelle in campo biomedico è dato dalle loro dimensioni. Sono piccole ma non troppo. “Hanno grandezze inferiori ai 100 nanometri (1 nanometro = 1 milionesimo di millimetro, ndr) mentre i farmaci tradizionali sono dalle 20 alle 50 volte più piccoli”, spiega Fiammengo a ilfattoquotidiano.it “questo fa sì che le nanoparticelle siano più selettive, potrebbero ridurre l’infiammazione tipica delle malattie neurodegenerative ma senza compromettere la normale comunicazione dei neuroni, ossia non danneggiando le sinapsi. Il contrario di quello che si verifica con i farmaci tradizionali dove l’azione è generale e può bloccare le sinapsi, causando effetti tossici secondari anche gravi”.

“Le sinapsi – precisa l’esperto – sono piccoli spazi larghi meno di 40 nanometri, dove due cellule nervose si ‘toccano’ e comunicano. È proprio perché sono così strette che le nanoparticelle non riescono a penetrarle e quindi non interferiscono bloccandole”. A permettere la comunicazione fra neuroni c’è un neurotrasmettitore, un particolare amminoacido, il glutammato. “Il problema è che nelle malattie come l’Alzheimer, la corea di Huntington, l’ictus, il rilascio di glutammato è abnorme e incontrollato, quindi non è solo dove dovrebbe essere, ossia nelle sinapsi, ma fuoriesce e raggiunge altre aree, dette appunto extrasinaptiche, nelle quali attivando per un periodo lungo i neuroni ne causa la morte”.

Ed è proprio in quelle aree che intervengono le nanoparticelle. “Nella comunicazione fra neuroni, il glutammato deve legarsi a delle specifiche proteine dette recettori NMDA che si trovano sulla superficie dei neuroni. Le nanoparticelle da noi sviluppate impediscono che il glutammato attivi tali recettori”.

C’è da dire che per queste malattie neurodegenerative ancora oggi i meccanismi che le provocano non sono noti. “Di sicuro sembra che ci sia alla base di tutte una predisposizione genetica e un processo infiammatorio generalizzato, dove uno dei primi segni di neuroinfiammazione è appunto l’attività incontrollata del glutammato che spinge il sistema ad una diffusa iperattività”, chiarisce Fiammengo.

Non essendo note le cause, tutte le terapie di oggi mirano a curare “gli effetti secondari della patologia”. E la scoperta delle nanoparticelle va in questa direzione, riducendo gli effetti del sovrarilascio di glutammato si può “fin dai primi stadi di sviluppo della malattia, ridurre la neuroinfiammazione e rallentarne il decorso”.

Per la medicina questa ricerca apre a nuove prospettive ma prima di arrivare ai nanofarmaci bisognerà chiarire “come far arrivare queste formulazioni a base di nanoparticelle al cervello in maniera efficace e soprattutto in quale dosaggio, sebbene si preveda che vista la loro capacità selettiva, occorrerà un dosaggio minore rispetto ai farmaci tradizionali”.

Lo studio ha usato come modello le nanoparticelle di oro, poiché si tratta di “un metallo non tossico e facile da modulare sia nelle dimensioni sia nelle proprietà chimiche”. Ma probabilmente i nanofarmaci del futuro “saranno a base di polimeri biodegradabili o idrogeli – conclude Fiammengo – la strada è ancora lunga ma abbiamo acquisito conoscenze fondamentali e incoraggianti”.

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