L’app Immuni si è aperta all’intero territorio nazionale, ma i suoi numeri sono impietosi. In 10 giorni solo 2.200.000 italiani hanno deciso di scaricarla e infatti da qualche giorno le – a quanto pare poco incisive – campagne di comunicazione non vengono più accompagnate, come accaduto all’inizio, da entusiastiche dichiarazioni governative sul numero di download effettuati dagli italiani. La percentuale del 60% di soggetti che dovrebbero utilizzare l’app perché possa avere teoricamente una sua qualche efficacia sembra davvero lontanissima da raggiungere.

E fanno sorridere amaramente gli attuali tentativi di spostare l’attenzione sul suo funzionamento riportando un po’ maldestramente agli onori della cronaca il “caso ligure” di tre soggetti risultati positivi che hanno scaricato l’app, in merito alla quale non sappiamo neppure con certezza se tali soggetti poi l’abbiano davvero sbloccata perché notificasse l’alert alle persone che – avendo a loro volta scaricato e utilizzato Immuni – siano stati in prossimità con loro e quindi a rischio di contagio.

Una “non notizia”, quindi, sbandierata come una prova di funzionalità disperatamente usata in un momento di oggettivo scoramento istituzionale, che sta svelando amaramente la fragilità del progetto Immuni.

In realtà, l’intero sistema su cui si poggia l’app Immuni non è ancora pronto a livello di sicurezza informatica, tanto che i presidi di sicurezza basati sulla cosiddetta autenticazione forte poggiata sul sistema tessera sanitaria, come stabilito dal Decreto del ministero dell’economia e finanze del 3 giugno e come prescritto dal provvedimento del Garante sul sistema Immuni (oltre che da altri provvedimenti in materia di sanità digitale), richiederanno ex lege ancora dai 60 ai 90 giorni per essere introdotti.

Rimane un mistero comprendere come mai si sia deciso di partire comunque, trattando di fatto i cittadini italiani come delle cavie in un laboratorio non ancora sicuro a livello di protezione di loro dati così delicati.

Come sappiamo, l’intero progetto è andato avanti in modo confuso sin dall’inizio, con cambiamenti di rotta continui, incertezze sulla sua reale efficacia, poca trasparenza istituzionale, e oggi sembra rappresentare spietatamente la reale situazione italiana in materia di digitalizzazione.

Siamo in un Paese digitalmente allo sbando, tra data breach continui ai danni del nostro sistema amministrativo che svelano la fragilità informatica delle soluzioni in essere, sino alle contorsioni burocratiche di certi processi ancora aggrappati alla carta e che guardano il digitale come una spaventosa eccezione da cui star lontani.

E del resto il fallimento dell’Italietta digitale ormai intrisa di vacue favolette su ciò che si vorrebbe fare (e che da anni non si fa) è drammaticamente documentato dall’Indice Desi – l’indice della Commissione europea che misura il percorso dei Paesi verso un’economia e una società digitalizzate – che ci ha relegati al 25esimo posto in Europa su 28 Stati. In un anno abbiamo perso ben due posizioni e sotto di noi ci sono solo Romania, Grecia e Bulgaria.

È davvero difficile anche solo poter immaginare di fare peggio rispetto a ciò che non si è fatto negli ultimi anni. Siamo di fronte a un Paese governato in retromarcia che ormai blatera di innovazione digitale e purtroppo giorno dopo giorno ha strappato quelle poche radici che rappresentavano le (limitate) certezze in materia.

Qualcuno dovrebbe valutare di fare finalmente i conti su ciò che è accaduto, senza continuare a farci ascoltare come un disco rotto un racconto che non convince neppure più il suo narratore.

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