Ricordare non basta più. Non basta raccontare la storia di Iqbal Masih, un bambino pakistano, che a 4 anni è stato venduto dal padre all’industria dei tappeti e incatenato al telaio, si è ribellato diventando il simbolo della lotta contro il lavoro minorile nel mondo ed è stato ucciso dai sicari della mafia dei tappeti. Era il 16 aprile del 1995 e quella data, insieme a quella del 12 giugno, è diventata la Giornata mondiale contro il lavoro minorile. Sono passati, però, 25 anni.

Troppo poco è cambiato in molte aree del mondo. Anche in Pakistan, dove la Sindh Prohibition of Employment of Children Bill vieta dal 2017 il lavoro minorile sotto i 14 anni, ma solo per le fabbriche e non nei ristoranti e nelle case, dove avviene di tutto. Nel 2016 è scoppiato il caso di Tayyaba, 10 anni, a cui la sua padrona, moglie del giudice distrettuale Raja Khurram Ali Khan, ha bruciato una mano perché la bambina aveva perso una scopa. Non basta ricordare se, solo pochi giorni fa, un’altra bambina pakistana di 8 anni, Zohra, rea di aver liberato due pappagalli dalla gabbia nella casa in cui lavorava come domestica, è stata picchiata selvaggiamente dai suoi padroni, una famiglia benestante di Rawalpindi ed è stata lasciata in condizioni gravissime al pronto soccorso, dove è morta dopo poche ore.

Ricordare non basta più, bisognerebbe guardarsi invece intorno con più attenzione, dato che in tutto il mondo, secondo l’Unicef, ci sono 152 milioni di bambini (un decimo della popolazione infantile globale) coinvolti in qualche forma di lavoro minorile e 72 milioni svolgono un’attività pericolosa. Ci sono i 40mila ragazzini impegnati nelle miniere di cobalto del Congo dove, in alcune aree, è corsa ai minerali che servono per far funzionare computer, tablet, smartphone e persino le auto elettriche.

Per questo i bambini lavano le rocce immersi in pozze inquinate, che poi verranno trasportate in Cina. Solo di recente, il più grande produttore cinese di cobalto, Huayou Cobalt, ha annunciato che non si approvvigionerà più dalla Repubblica Democratica del Congo, perché il Paese non può offrire sufficienti garanzie contro il lavoro minorile. Ma la più grande discarica abusiva di rifiuti elettronici del pianeta si trova in Ghana, ad Agbogbloshie, sobborgo di Accra: ogni anno da Europa e Stati Uniti arrivano trecento tonnellate di dispositivi tecnologici fuori uso. E qui lavorano i figli dei contadini a cui, al Nord, la siccità ha tolto la terra da coltivare. Già, la “grande bufala” del cambiamento climatico fa anche questo. È ovunque. Quello che accade nella discarica lo racconta il documentario ‘The burning field’ del regista newyorkese Justin Weinrich. Un pugno nello stomaco. I bambini camminano a piedi nudi e dormono sul veleno. E lo respirano tutto il giorno, mentre cercano pezzi di ferro e chiodini.

E poi ci sono migliaia di bambini costretti a manipolare pesticidi perché impegnati nelle coltivazione di prodotti esotici come tè e banane destinati ai mercati esteri. Quindi anche a noi. Ci sono quei bambini dietro i prodotti che troviamo sugli scaffali e che provengono da Bangladesh, India e Nepal. Per non parlare di tabacco, cacao e delle polemiche sullo sfruttamento di minori nelle piantagioni di nocciole in Turchia. Proprio in queste ore la denuncia di Coldiretti Puglia: dalle conserve di pomodoro cinesi alle ciliegie e agli agrumi dalla Turchia, dai fagioli della Birmania, alle cipolle e alle zucchine dal Messico, fino al pesce dal Ghana, ai gamberi dalla Tailandia e ai fiori del Kenya, quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva sulle nostre tavole dall’estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori vigenti nel nostro Paese, con lo sfruttamento del lavoro di 108 milioni di bambini nelle campagne.

E poi c’è l’industria tessile con lo sfruttamento che, in Paesi come Tailandia, Cina, Indonesia e India, è presente in tutta la filiera: dalla raccolta nei campi di cotone al confezionamento nelle grandi fabbriche, dove i bambini possono lavorare fino a 12 ore al giorno. Riguarda anche questo settore l’allarme lanciato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) e dall’Unicef sulle conseguenze che la crisi da Covid-19 potrebbe avere su milioni di bambini, spinti verso il lavoro minorile. Anche se a rilento, in 20 anni sono stati fatti dei progressi: dall’inizio del millennio ci sono 94 milioni di bambini in meno costretti a lavorare. Passi in avanti che rischiano di essere cancellati. Non solo in Bangladesh, secondo grande produttore al mondo di capi di abbigliamento dopo la Cina, dove il crollo degli ordini da parte delle aziende committenti ha provocato perdite per quasi tre miliardi di euro, ma anche in India (alle prese con un calo record del prezzo del cotone), in Vietnam e Sri Lanka.

E visto che ricordare non basta, mentre la Commissione europea si appresta a sviluppare una nuova ‘Strategia globale per il settore tessile’, ad aprile scorso un gruppo di 65 organizzazioni della società civile ha esposto la sua visione per il settore globale del tessile, dell’abbigliamento, della pelle e delle calzature, proponendo una serie di azioni (legislative e non) che l’Unione europea può intraprendere per catene di produzione più eque e sostenibili. Perché, diceva Iqbal, “gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite”.

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