Il Covid-19 ha richiamato alla memoria la febbre spagnola, la più grande pandemia del Novecento esauritasi proprio 100 anni fa, dopo essere apparsa nel gennaio del 1918 manifestandosi lungo tre ondate, la più letale fu la seconda tra settembre e dicembre del 1918. Il prolungamento dell’epidemia fu favorito dall’impoverimento dell’alimentazione e dalle precarie norme igieniche.

La spagnola – così chiamata in Italia in ragione delle notizie sul virus provenienti dalla Spagna dove non operava la censura di guerra – si stima che sia stata la causa di 50 milioni di morti, oltre il quintuplo dei caduti del Primo conflitto mondiale costato la vita a 8.500.000 uomini. Il difficile computo dipende da un’assenza sistematica di raccolta dei dati, sicuramente più accurata in Europa e nel Nord America. Anche in quest’area però la valutazione non è sempre puntuale. Le statistiche italiane per il 1918 segnano un incremento del 21% dei morti per causa ignota, con i decessi per tubercolosi inseriti fra le vittime della spagnola benché l’influenza sia stata causa dell’aumento dei morti per Tbc.

In Francia, nella zona di Calais, gli affanni respiratori dei primi malati furono imputati al gas tossico usato dai tedeschi. O ancora, nell’inevitabile propensione al complottismo delle menti incapaci di spiegarsi un fenomeno, si imputò la trasmissione dell’influenza a un’arma batteriologica diffusa dai tedeschi e allora era meglio tacerne gli effetti, per mostrare che il virus non aveva attecchito.

In ogni caso, la primaria preoccupazione dell’Europa era la guerra e non la malattia, tant’è che i primi documentati allarmi dei medici agli alti comandi militari furono ignorati. Proprio il conflitto si è rivelato il focolaio decisivo, con i soldati intrappolati nelle trincee, inclusi i neoarrivati statunitensi probabili portatori del virus dal Kansas. Il mancato isolamento, con la fase dei rimpatri, contribuì ad estendere i contagi.

In Italia, durante la seconda ondata dell’autunno 1918, furono adottati provvedimenti restrittivi: vietati i contatti fisici, suggerito l’uso di mascherine di garza, sospesi i funerali, chiuse in anticipo osterie e botteghe alimentari dove non mancarono le incette.

Culture e pregiudizi elaborarono la convivenza con la malattia: a Odessa si ripresero vecchi rituali religiosi per proteggersi; in Polonia il virus fu chiamato “febbre del bolscevico”, in Sudafrica le comunità bianche e nere si accusarono reciprocamente di essere portatrici del virus rafforzando di conseguenza la vocazione bianca all’apartheid. Le situazioni estreme, specie se mal governate, non rendono migliori le persone, ma rischiano di alimentare nazionalismi e razzismi peraltro due facce della stessa medaglia.

Sulla Spagnola un importante corpo di studi è apparso alla fine degli anni Novanta con un rilancio di interesse in occasione del centenario. Del suo impatto devastante non restano però che pochi cenni sui manuali di Storia e flebili tracce nella nostra memoria perché la Spagnola fu vissuta come una tragedia personale e non collettiva.

Oggi è diverso: non c’è altra attenzione che la pandemia, resa esperienza collettiva nelle monopolizzate informazioni dei media mondiali, nel cambio delle nostre abitudini, nella mutazione del modo di lavorare o nella perdita del lavoro. Tutti i governi sono stati costretti a disporre misure economiche straordinarie per fronteggiare gli effetti del virus.

Il Covid-19 ci ha dato la sensazione di una perdita di controllo del nostro processo di crescita. La vocazione indiscriminata al profitto non solo ignora la dimensione umana, ma non contempla né l’incidente di percorso né uno scenario di emergenza. A settembre del 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità avvertiva la “minaccia molto reale di una pandemia fulminante, sommamente letale, provocata da un patogeno respiratorio che potrebbe uccidere da 50 a 80 milioni di persone”. Se la sottovalutazione della Spagnola dipendeva dalla guerra, ignorare i crescenti segnali della pandemia a quale logica ha risposto?

Foto in evidenza: si distribuisce cibo ai bambini che hanno i genitori ammalati – Lapresse, 1918/1919 Cincinnati, Ohio (Usa)
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