La Lombardia è in affanno: e non intendo solo i malati di Covid-19 che per respirare hanno bisogno di respiratori, di ossigeno, di caschi. La Lombardia è, oggi, una regione che annaspa, al collasso, al minimo storico della credibilità dei suoi governanti, senza una guida, un piano, un progetto.

A quasi tre mesi dall’inizio riconosciuto (sappiamo bene che il virus girava tra ospedali, Rsa, bar, discoteche, aerei, treni, da almeno due mesi) dell’epidemia, la sensazione di noi tutti è quella di essere stati abbandonati a noi stessi. Abbiamo ubbidito, siamo rimasti a casa, abbiamo assistito alla rovina di migliaia di piccoli imprenditori, commercianti, dipendenti di bar, ristoranti, negozi. Abbiamo ascoltato annichiliti, ogni sera, numeri che ci raccontavano di ospedali prossimi al collasso, di morti accatastati, di bare caricate su camion militari, di pronto soccorsi con malati infilati pure nei bagni, di medici e infermieri che morivano dopo avere continuato a lavorare anche da malati, di case di riposo trasformate in obitori.

Abbiamo capito che la gente moriva nelle proprie case perché tanto negli ospedali non c’era posto, né modo, per curare più nessuno. Spaventati, impotenti, allibiti, da un uragano tanto silenzioso quanto letale, abbiamo lentamente rallentato la corsa del virus: solo grazie a quel distanziamento sociale, a cui ci siamo adeguati, che ha impedito al virus di continuare a saltare da una persona all’altra senza ritegno (così come senza ritegno il virus è saltato da un pipistrello all’uomo in un ambiente che abbiamo alterato fino al punto di modificarne gli ecosistemi, tanto da favorire i virus a fare dal mondo degli animali selvatici quel salto di specie verso l’uomo che ora non sappiamo più controllare).

E ora si riparte. Com’è giusto che sia. Perché la vita deve continuare, le persone devono lavorare per mangiare, e perché l’uomo, che è un animale sociale, non può reggere in una dimensione di vita che non gli appartiene.

Parlerò, in una prossima occasione di come un virus ci abbia aperto gli occhi su un modello di società, produttivo, economico e sociale che è arrivato a fine corsa e che dovremo assolutamente modificare: è un fatto di sopravvivenza.

Ma ora torniamo alla Lombardia.

In questi quasi tre mesi la Regione avrebbe dovuto organizzarsi: impostare un piano di azione per questa famosa fase due che ci rassicurasse. Che ci dicesse che la tanto decantata eccellenza della sanità lombarda ha saputo modificare il suo modello e adattarsi a questa situazione eccezionale. Che si erano ascoltati gli scienziati, fatto tesoro degli esempi virtuosi di chi ha saputo meglio gestire questa emergenza. Il caso del Veneto è emblematico. E non si dica che là i contagi erano meno: avrebbero potuto essere tanti quanti qui ce ne sono stati, se non si fosse là avviata fin da subito quella che l’epidemiologo Vespignani chiama la regola delle 3T: testare, tracciare, trattare.

E invece non è stato così. E oggi in Lombardia regna il caos. Continuiamo ad essere incerti su quel valore di contagio R0 inferiore a 1 che consentirebbe il contenimento del diffondersi della malattia; i contagiati sono ancora nell’ordine delle migliaia (e sappiamo bene che il rapporto tra i numeri che vediamo non corrispondono alla realtà, che molti epidemiologi calcolano essere dieci volte superiore).

Ecco, mentre la Lombardia, cuore pulsante dell’economia italiana, riparte, non c’è nessuna certezza.

I tamponi ci sono o non ci sono? Dove vengono processati? Quanti siamo in grado di farne? A chi? Con quale criterio? I test sierologici li abbiamo? Sono attendibili o no? Quali? Quanti siamo in grado di farne? A chi? Con quale criterio? E infine: chi li fa? Chi li paga? I privati? La Sanità Pubblica? Chi traccia i contagi? Chi identifica i contatti dei contagiati? Chi dispone l’isolamento dei contatti? Chi lo controlla? Dove l’isolamento viene fatto? Le notizie si accavallano confuse, contraddittorie, scoraggianti.

Caro Presidente Fontana, Caro Assessore Gallera, noi Lombardi siamo molto molto arrabbiati: come si permette l’assessore al Welfare di dire che “chi li propone (i test sierologici) deve occuparsi di tutto, acquisire i test, trovare il laboratorio, spiegare che sono volontari”, insomma che questi test “non devono gravare sulla sanità pubblica”. Caro Assessore Gallera, le ricordo che la sanità è pubblica, e che è proprio la sanità pubblica che deve fornire i test, indicare quali categorie devono farli, mettere al lavoro un esercito di persone (pagate), farsi supportare da quella preziosa (e bistrattata) categoria chiamata “medici di base” per avviare il programma delle 3T; e poi accogliere in strutture deputate, i “corridoi” di cui tutti i Paesi più attenti si sono dotati (alberghi, caserme, ospedali dismessi, fate voi), chi dovrà starsene in quarantena. La sanità pubblica lombarda deve in pochissimi giorni (giorni, non settimane) mettere a punto un piano di intervento per questa benedetta fase 2.

Altrimenti in poche settimane ci ritroveremo tutti di nuovo nella fase 1: ma in una condizione molto peggiore di quella in cui ci siamo trovati all’inizio. E allora non ce ne sarà più per nessuno.

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