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di Andrea Giannotti

Il livello costruttivo della polemica politica si poteva già intuire dal tweet di ieri sera di Matteo Salvini che, fra un attacco di nostalgia per le occupazioni liceali e la scoperta del Parlamento aperto, ritraeva un’arancia nordafricana, rea di essere servita al Senato in qualità di spuntino non italiano. Ma la deplorevole pioggia di insulti e accuse riversata sul Presidente del Consiglio in occasione dell’informativa del 30 aprile ha replicato verbalmente tanto il frastuono quanto l’inutilità del bombardamento di Dresda nel 1945. I telespettatori hanno perciò assistito ad un ritratto della politica italiana tristemente eloquente.

Alla Camera Roberto Occhiuto ha definito Conte “un Brusaferro” (non si comprende se per offendere o elogiare) e un menefreghista. Maurizio Lupi ha evidenziato “autoritarismo strisciante”, arroganza e eccessivo servilismo di fronte alla scienza. Ma la prevedibile raffica arriva dall’arbiter elegantiae Claudio Borghi: Conte è un “un diversamente sincero”, “che arriva di notte in ritardo, come un ladro”, “che provoca imbarazzi pericolosi”, “bugiardo”, “riluttante a studiare i dossier”, “Fracchia e Pinocchio” (Conte e Gualtieri), “un premier inventato e un ministro per caso” (ancora Conte e Gualtieri).

A ruota Giorgia Meloni che, dall’alto della sua preannunciata (ma presto tradita) “pacatezza”, è scesa al basso di un livello elementare di nozioni virologiche e costituzionali, passando per strillate accuse alla maggioranza sui mafiosi liberi e gli “spacciatori nigeriani che vi mancavano!”. Il tutto condito da banali derisioni e dall’ennesima pillola: “Pensate come state messi se vi devo dare io lezioni di democrazia!”. La Meloni si è così autodefinita o ignorante o anti-democratica. Tertium non datur.

Al Senato, forse (ma ne dubitiamo) per la vetusta saggezza, non sono volate parole eccessivamente degne di nota, se si escludono gli ululati della Lega durante l’intervento di Conte, l’inutile – perché decontestualizzata – citazione da Seneca da parte di Matteo Renzi e la rustica citazione (“lo diceva mia nonna!”) da parte Ignazio La Russa, il quale ha addirittura confessato una comunanza di pensiero con Renzi.

Poca verve ne “la responsabilità e l’amore per l’Italia” di Matteo Salvini che, autoproclamatosi da tempo vox populi e oggi sorprendentemente ideologo educato (che rievoca la secolare diade statalismo-liberismo), ha prodotto l’usuale elenco dei sentimenti degli italiani, delle libertà (di persona, culto, impresa, azione e circolazione), delle cartelle da stralciare, ecc. Accuse e slogan che, sì, appaiono scritte “sull’acqua che scorre e il vento che soffia”, ma che caratterizzano lo stile retorico dell’attuale classe dirigente (che si accorge oggi della prima persona plurale), specchio e risultato della cultura italiana.

Tale il livello di dialettica e argomentazione (in cui si è giunti ad additare persino il taglio di capelli di Conte) da far sembrare, ahimè, personalità quali Ettore Rosato, Julia Unterberger e Alessandra Maiorino dei giganti della politica garbata di professione. Eppure l’informativa di Conte si poteva già riassumere nella frase “la filosofia antica, da Platone ad Aristotele, distingueva la δόξα (l’opinione) dall’ἐπιστήμη (la conoscenza)”. La stessa Maiorino ha temuto che Conte “abbia volato troppo alto per quest’aula”.

Difatti l’attuale quadro politico italiano non è posto per la conoscenza ed il suo valore, non perché assediata dalla legittima opinione contraria, ma perché quest’ultima è stata barbaramente soppiantata da propagandistiche frasi fatte, insulti triviali e urla vuote. E non meraviglia che Conte non consideri il Parlamento, rinomata alcova di lauree, dottorati, titoli internazionali e profili incensurati, quella “task force numero uno d’Italia!” tanto promossa da Anna Maria Bernini.

Così il desiderio di un serio risorgimento ideologico-verbale della nostra politica è destinato a rimanere sempre più un Somnium Scipionis. Dal XXI secolo italiano d.C. è tutto.

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