Congiunti. È questa parola dal sapore arcaico, presente nel nuovo Dpcm in vigore dal 4 maggio per indicare chi saremo autorizzati a visitare nella fase 2 dell’ermergenza coronavirus, ad aver scatenato nelle ultime ore una miriade di reazioni. Dubbi e perplessità sono stati sollevati da politici e giuristi, ma anche dalle associazioni che tutelano i diritti Lgtb per i timori sulla possibile discriminazione che questo termine può introdurre. In trend su Twitter da questa mattina la parola è anche diventata “protagonista” di meme e battute: anche perché molti si chiedono come si potrà dimostrare un “affetto stabile”. Il governo promette chiarimenti nei prossimi giorni, nel frattempo abbiamo posto tre domande a Gabriella Luccioli, già presidente della I sezione civile della Cassazione e giurista in tema di famiglia, per chiarirci le idee.

La parola congiunti non esiste nel codice civile. Cosa significa questa svista per una giurista?
Il termine “congiunti” è un termine atecnico e certamente comporterà notevoli incertezze interpretative. Il codice civile fa riferimento solo ai parenti e agli affini, mentre il codice penale
all’articolo 307 ultimo comma dispone che si intendono per ” prossimi congiunti” gli ascendenti (genitori, ndr), i discendenti (i figli, ndr), il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti. Attribuita a quest’ultima disposizione una valenza di carattere generale, le categorie di persone in essa elencate possono agevolmente ricomprendersi tra i soggetti beneficiari del Dpcm. A dette categorie di familiari vanno aggiunte le parti dell’unione civile, stante l’equiparazione ai coniugi sancita dalla legge Cirinnà ed, a mio avviso, anche le parti delle unioni di fatto, cui la giurisprudenza ha in più occasioni riconosciuto tutele analoghe alle coppie coniugate. Va in ogni caso tenuto conto che ai sensi dell’articolo 77 del codice civile la legge non riconosce il vincolo di parentela oltre il sesto grado. Escludo che possano farsi rientrare nella previsione in esame i fidanzati e i titolari di “affetti stabili”.

Esiste, a fronte di un controllo, il modo di certificare una relazione non sancita da unione civile o matrimonio come compagno/a, fidanzato/a, coppie di fatto con residenze anagrafiche diverse?
Scontata la possibilità di dimostrare il vincolo di coniugio o di unione civile, per i conviventi di fatto credo debba farsi riferimento alla dichiarazione anagrafica prevista dal comma 37 dell’ art.1 della legge Cirinnà per l’accertamento della stabile convivenza. I fidanzati, come ho già detto, devono considerarsi esclusi dal beneficio: è tra l’altro evidente che la loro inclusione comporterebbe notevoli difficoltà sul piano probatorio.

In una nota è stato chiarito invece che con “congiunti” si intendono “parenti e affini, coniuge, conviventi, fidanzati stabili, affetti stabili” e che a breve saranno pubblicate le Faq sul sito di Palazzo Chigi. Lei a quale domanda vorrebbe che si trovasse una risposta?
Credo sia necessario che si faccia chiarezza, con ulteriori interventi esplicativi, su misure che incidono in modo così diretto sulla vita e sulla libertà delle persone, restituendo alle parole il
senso loro proprio e facendosi carico delle difficoltà che i cittadini incontrano quotidianamente nel rispettare prescrizioni non puntualmente definite e spesso contraddittorie

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