Anche quest’anno, nonostante la pandemia, dobbiamo in qualche modo celebrare la liberazione da un regime che negava agli italiani i diritti fondamentali e calpestava la dignità della persona. Tra le libertà negate c’era anche quella dei lavoratori di associarsi in sindacati. Anzi, il fascismo nacque proprio per interrompere, con la violenza, quel mirabile processo di democratizzazione, avviato agli inizi del Novecento sulla spinta dei sindacati e del movimento operaio.

Questo 25 aprile non ci saranno cerimonie di piazza, ma avremo più tempo da dedicare alla riflessione sui preziosi valori della Costituzione e sullo stato di salute della nostra democrazia. Nel 1948, non si passò certo dalla dittatura alla democrazia in un “amen”, come Minerva dalla testa di Giove. Il rinnovamento del Paese è stato al contrario rallentato dalla sopravvivenza di normative vecchie e autoritarie, alcune delle quali tuttora vigenti.

Emblematica è la vicenda dei diritti sindacali dei militari: ci sono voluti settant’anni perché la Corte costituzionale cancellasse, dal Codice dell’ordinamento militare, l’anacronistico divieto di costituire “associazioni professionali a carattere sindacale”. Ma non cantiamo vittoria, perché la modernizzazione delle Forze armate potrà essere ancora ostacolata da una legge sindacale che si fa attendere dall’aprile 2018.

Sappiamo bene che la Commissione Difesa della Camera dei deputati sta confezionando un deludente testo base, lesivo del fondamentale principio di libertà sindacale, tutto orientato a introdurre lacci e lacciuoli all’azione dei nuovi sindacati, a metterli sotto il controllo dei vertici e a isolarli. In effetti, un modo efficace per sabotare il sindacalismo con le stellette è quello di favorire la distanza dei sindacati militari dai sindacati degli altri lavoratori.

Questa è naturalmente l’intenzione delle destre, mentre non è affatto chiara la posizione del M5S e del Pd. Esiste senza dubbio una variegata “ragnatela antiriformatrice”, ispirata da una deleteria logica della “separazione” degli apparati militari dal resto della società nonché dal timore di veder saltare consolidate situazioni di potere.

È vero che “la storia insegna, ma non ha scolari”. Anche la legge n. 121/81 di riforma della Polizia di Stato – che entrò simbolicamente in vigore il 25 aprile del 1981 – fu pesantemente condizionata da simili posizioni conservatrici. Come sostiene Michele Di Giorgio, essa fu il frutto di un compromesso al ribasso e ha impedito la piena ristrutturazione democratica della Polizia.

In particolare, l’art. 83 stabilì che i sindacati dei poliziotti non possono “aderire, affiliarsi o avere relazioni di carattere organizzativo con altre associazioni sindacali”. Questo divieto incostituzionale, che costituisce una grave menomazione della libertà sindacale e che mai nessuno ha pensato di depennare, ha inevitabilmente aperto la strada a dannose derive corporativistiche.

Eppure Stefano Rodotà già nel 1974, sulle pagine di Panorama, aveva messo in guardia da questo pericolo: “Nella pubblica amministrazione, il sindacalismo autonomo è all’origine delle degenerazioni corporative […] La via da battere, allora, è ben diversa, e passa attraverso la costituzione di un sindacato collegato con le confederazioni dei lavoratori: solo così si potrà realizzare uno strumento capace di avviare alla democratizzazione dell’intero apparato e non solo la tutela degli interessi di un gruppo. Altrimenti, invece di reintegrare il poliziotto nell’organizzazione sociale, si accentuerà la sua appartenenza a un corpo separato”. Vox clamantis in deserto.

Tornando ai nostri giorni, dobbiamo sperare che, dopo questa pausa forzata, fiorisca un positivo dibattito parlamentare nel quale prevalgano le istanze progressiste. Va sicuramente evitata una nuova apartheid sindacale che, invece di superare l’atavica “separatezza” tra militari e cittadini, rischierà di acuirla costruendo muri e scavando nuovi fossati.

Ma a prescindere dalla norma, sarebbe comunque auspicabile una maggiore attenzione, da parte delle grandi confederazioni sindacali, per i problemi dei militari, che vanno considerati lavoratori da tutelare come tutti gli altri.

Fa ben sperare la posizione assunta nei giorni scorsi dalla Cgil, che è scesa in campo a fianco di gran parte dei sindacati militari e di polizia contro la curiosa richiesta di “scudo penale e civile” per i vertici militari, avanzata al Governo dalla Commissione Difesa del Senato, con riferimento all’emergenza Coronavirus.

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