Chiedo in famiglia che giorno è. Ognuno dà una versione differente, il tempo s’è sfaldato, solo la luce ne scandisce lo scorrere. L’orizzonte è una promessa. Niente tic tac tic tac… Non abbiamo il balcone, ma abbiamo un garage e lo spazio di fronte, ghiaia che a guardarla alza polvere.

Oggi ci sembra un privilegio, abbiamo trasformato questa quarantena in una “quaranTana”: tiro a segno, lavoretti, subbuteo, ping pong, la scopa di saggina che ormai tira a lucido le ragnatele. Due cavalletti da carpentiere, un ripiano e i compiti si fanno lì, rompendo la ripetitività del tavolo di casa.

Da quando scendiamo in garage siamo appuntamento fisso per alcuni vicini (psicanalisi di vicinato). Uno lo senti arrivare che sbuffa, saluta così, ormai mi fa leggere le poesie sul cellulare, lui che buongiorno/buonasera era un dibattito, ora mi fa leggere poesie.

L’altro ha superato gli ottanta, vive solo, vedovo, casa grande, giardino per tenersi impegnato, cose da fare per darsi un senso, se fulmina una lampadina consulta il National Geographic e te lo racconta.

Nei nostri pochi metri quadrati non ci lamentiamo, ci sentiamo quasi liberi. Il nostro vicino ci aspetta, ogni giorno, in attesa di un cenno umano per parlare, restare appeso a qualcosa che nel suo piccolo paradiso manca. Appoggia la sua detenzione alla ringhiera, mi chiede com’è andata oggi, vuol sapere decessi e contagi.

La sua vita è tagliare il prato, confidare in un guasto all’impianto elettrico per chiamare un tecnico e avere compagnia, non ha dove andare, ma si lascia andare ogni giorno di più. Ripete “Non ce la faccio, non so se ci arrivo…”

Gli hanno tolto l’idea di libertà, anche se non ha destinazioni, anche se il suo mondo è dietro la ringhiera, nel pratino alle cui nipotine è vietato camminare, che non lo vanno mai a chiamare “nonno”. Dice che non ha fame, non ha voglia di fare nulla, appende le braccia al cancelletto, come un pugile sfinito, senza nessuno all’angolo ad aspettarlo.

Allora aspetta noi, guarda la vita dei miei figli, la mia di padre che si occupa di loro, ma soprattutto parliamo di speranze. Gli intimo di tagliare il prato, lo ferisco nell’orgoglio, la mattina dopo sento il rombo del tagliaerba ruggire. Gli avevo detto un pezzettino di prato, ma lui no, sotto il sole taglia tutto, gronda di sudore e di anni. S’appoggia alla ringhiera, gli fa male un piede, non vede l’ora di buttarsi sotto la doccia e a letto, finalmente un motivo per sentirsi stanco.

Torna col giornale in mano “Non c’è niente in tv stasera”. Allora torno io con alcuni dvd, mi ringrazia, a volte sembra voler piangere. Ha il telefono di casa che non funziona, chiamo l’operatore, finalmente risponde una voce, segnalo il guasto. Qualcuno potrebbe chiamarlo per farlo sentire meno solo, fosse anche uno che ha sbagliato numero. Gli ho promesso che libereremo le talpe nel suo pratino, tireremo uova al muro, pisceremo sopra i gerani per farli morire e trovargli qualcosa da fare. Ride.

Da qualche giorno sta meglio, pensa meno alla morte, ma guarda ancora la libertà al di là del cancello, dove siamo noi e vedo che c’è chi è in quarantena da una vita, ma solo ora fa i conti con la paura che fa. Io ho messo a posto il garage, i figli sono sereni, salutiamo il vicino. Ci dice grazie. Per così poco.

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