di Sara Antonia Passante*

Le disposizioni dei Dpcm 8 marzo 2020, 11 marzo 2020 e 10 aprile 2020 consentono, nella situazione emergenziale, di attivare il lavoro agile anche in assenza dell’accordo individuale, il quale, ai sensi dell’art.19 L. n. 81/2017, disciplina l’“esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore” .

La dirompenza della deroga al principio dell’accordo individuale, che nel lavoro agile ordinario regola aspetti rilevantissimi dello svolgimento del rapporto di lavoro, si giustifica con la necessità di adottare immediatamente misure volte a minimizzare gli spostamenti e le presenze sui luoghi di lavoro al fine di contenere la diffusione del contagio.

I decreti e i Dpcm delle ultime settimane riconoscono infatti il lavoro agile “quale ulteriore misura per contrastare e contenere l’imprevedibile emergenza epidemiologica” (art. 18 del D.L. n.9/2020) e ne raccomandano l’adozione “allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19”.

In tale contesto, il lavoro “agile” si presenta come una fattispecie del tutto peculiare, più coerentemente qualificabile come “home working”. Il Dpcm 11.3.2020 “raccomanda” da un lato che “sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese delle modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”, e, dall’altro, che “siano sospese le attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione” (art. 1, punto 7, lett. a e c). Il Dpcm 10.4.2020 all’art. 1 lettera ii) raccomanda, per “le attività professionali”, che “sia attuato il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”.

Nel settore pubblico il D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 stabilisce, all’art. 87 c. 1, che fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica “il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”. Sebbene tale disposizione riguardi solo il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art.1 c. 2 del D.L. 165/2001, si ritiene che, alla luce delle stringenti disposizioni governative, anche per le attività produttive e professionali l’autonomia del datore di lavoro risulti fortemente limitata, dovendosi privilegiare in ogni caso lo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità di lavoro “agile”.

La ratio delle disposizioni citate e il precetto generale di cui all’art. 2087 c.c. ci portano a ritenere che sussista, a certe condizioni e quanto meno fino alla cessazione dello stato di emergenza, il diritto del lavoratore a pretendere lo svolgimento della prestazione in modalità “agile”. Detta modalità consente infatti il giusto contemperamento tra diritti ugualmente meritevoli di tutela, quello alla salute e quello al lavoro.

Dalle disposizioni dei Dpcm emerge che il datore di lavoro può esigere la prestazione lavorativa presso la sede dell’impresa (nel rispetto delle disposizioni contenute nel Protocollo di Regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro del 14 marzo 2020 e previa adozione di adeguate misure di prevenzione del rischio da diffusione del contagio) solo se le mansioni del lavoratore, per loro natura, possano essere svolte esclusivamente “in sede” e ove si tratti di mansioni essenziali affinché l’attività produttiva possa proseguire durante lo stato di emergenza.

In difetto di tali presupposti l’eventuale rifiuto del datore di lavoro a consentire lo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità “agile” potrebbe risultare illegittimo: può ritenersi infatti che l’interesse del datore di lavoro alla continuità dell’attività lavorativa resa con modalità “tradizionali” non sia prevalente rispetto all’interesse alla tutela della integrità psico fisica del dipendente e alla salvaguardia della salute pubblica.

Certamente questo diritto sussiste, alla luce dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 44 del T.U. 81/2008, quando in azienda vi sia il pericolo di esposizione del lavoratore al rischio di contagio e non risultino approntate adeguate misure di sicurezza. In questo contesto si inseriscono le disposizioni del Protocollo del 14 marzo 2020 siglato dalle Parti Sociali, il cui art. 8 prevede che le imprese potranno utilizzare lo “smart working” per tutte le attività che possono essere svolte “presso il domicilio o a distanza”.

Il diritto allo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità agile è in ogni caso espressamente riconosciuto dall’art. 39 del D.L. 18/2020 “fino alla data del 30 aprile 2020” in capo ai lavoratori disabili nelle condizioni di cui all’art. 3 c.3 della legge 104/90 (oltre che in favore di coloro che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità ai sensi della legge 104/90) se tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. Tuttavia anche al termine della fase emergenziale tale diritto potrebbe essere riconosciuto in favore dei lavoratori disabili e di coloro che se ne prendono cura quale “accomodamento ragionevole” ai sensi dell’art. 3 c. 3 bis dlgs 216/2003.

*Avvocata giuslavorista, vivo ed esercito la professione a Bologna, sempre dalla parte dei lavoratori. Nel più ampio costante confronto con tutte le problematiche connesse al diritto del lavoro, ho approfondito negli ultimi anni i temi della tutela antidiscriminatoria.

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