Beep. Arriva la notizia che l’Unesco ha fornito l’accesso gratuito alla biblioteca digitale mondiale su Internet. Leggo tutto il messaggio d’un fiato. Apperò. Poi mi alzo e faccio il giro di casa. Uno in salone, uno nello studio e poi loro, ognuno nella loro cameretta (e siamo fortunati che ne hanno una per uno). Ognuno davanti a un pc, ognuno al suo lavoro. Fruttuoso o no che sia, questo lo sapremo poi.

Fotografia di una casa qualsiasi, in un giorno qualsiasi di un anno e di un momento che sono quelli delle distanze di sicurezza. Dello smart working, della spesa a domicilio, della lontananza forzata, dei libri che ogni scrittore ci invita a leggere, dei film che molti intellettuali ci suggeriscono di vedere insieme a serie tv, corti, retrospettive e lungometraggi. Dell’Unesco che ci regala il suo patrimonio a larghe mani e mi viene da chiedermi perché se era possibile non è successo finora. Tutte iniziative sulle quali in altri momenti ci saremmo lanciati eccome. E invece adesso no, o non con lo slancio che ci vorrebbe visto l’invito a bere cultura a grandi sorsi che ci arriva addosso da ogni parte.

Perché, mi chiedo. E non solo perché la giornata passa veloce al di là di qualsiasi aspettativa (perché maxima banalità: dentro casa c’è sempre da fare), ma anche e soprattutto perché lettura, cinema, musica, teatro e l’arte in genere non sono pratiche da poter accogliere forzatamente o in condizioni di obbligo.

Non si legge perché si sta a casa né ci si addentra in un saggio “visto che le giornate sono lunghe”. Non ci si appassiona al cinema perché non si può uscire di casa. E lo stesso vale per una mostra, una retrospettiva, un evento, un incontro. Questa smania che tutti devono darci i loro consigli per passare il tempo (in mancanza di quelli per gli acquisti) e per farci trascorrere la giornata in modo fruttuoso fa parte di un mantra del giusto comportamento che va in direzione ostinata e contraria ai consigli stessi, che riguardano, attenzione attenzione, pratiche d’evasione.

Ecco perché secondo me non funziona. Perché non si tratta di semplici suggerimenti, ma di condizionamenti. Non a caso gli scrittori, quelli che per definizione dovrebbero essere abituati al silenzio e alla stesura, adesso si lanciano a velocità fotonica nel suggerire in minivideo questo o quel romanzo da leggere; in riflessioni sull’oggi; in ragionamenti sul poi. Tutte pratiche di pubblicità indiretta, altroché. Altrimenti anche loro starebbero in silenzio e coglierebbero l’occasione per leggere o vedere film.

Il problema, ed è grande, è che chi è più fragile e dipendente da tv, cellulare etc. etc. diventa ostaggio nelle mani dei dispensatori di consigli e suggerimenti. Per pigrizia in parte, per carità, e perché è più facile seguire la via maestra. Prima lo diceva la tv, adesso lo dicono in un videomessaggio. Oggi come allora, non si sa chi.

La guerra in cui ci ritroviamo arruolati nostro malgrado va vinta (e velocemente) per più di un motivo. Il primo tra tutti è per tornare al prima. Attenzione, non a tutto il prima: ovvio che se le pratiche nei tribunali si snelliscono grazie a una firma digitale nessuno grida allo scandalo, anzi. E che se la Spid diventa pratica comune e riconosciuta ovunque faremo un peana ai tempi dell’oggi.

Tornare al prima significa al prima bello, al prima buono, che in genere – se è bello e buono – è anche giusto. Perché se è vero che a causa della sciagura che ci ha avvolto abbiamo conquistato nelle ultime tre settimane 15 anni di evoluzione tecnologica che ci saremmo altrimenti sognati o che avrebbero fatto parte del fantastico libro del Mai, è anche vero che non dobbiamo smarrire il senso alto del concetto di andare a lavoro.

Perché dietro questo sommo principio si nasconde, intelligente, la capacità di scelta. Di decisione. Di volontà. Andare al lavoro significa uscire dal ruolo che ci ha imposto la sorte o la quotidianità per andare – fisicamente – a prestare l’opera che è nostra, e che ci rende attivi nella società, nel luogo in cui questa deve svolgersi. Cioè negli uffici, negli studi, nei locali, negli esercizi, nelle fabbriche, nelle botteghe. Assieme agli altri, con loro e per loro.

Perché anche se all’inizio il lavoro da casa può risultare fruttuoso e proficuo (d’altra parte i dati al momento non dicono diversamente, ma aspettiamo, perché l’asfissia è dietro l’angolo) il collega è un valore, anche se non ci piace o ci sta antipatico, perché con lui ci confrontiamo e attraverso di lui rivediamo il nostro lavoro. Perché il capo è (dovrebbe essere) chi ne sa più di noi e ci insegna – e si può imparare solo dagli altri – anche se ci urta i nervi quel suo modo di dare gli ordini.

Perché le riunioni sono utili e il confronto dei cervelli indispensabile. Dobbiamo augurarci di tornare al più presto ognuno ai nostri lavori perché l’opera va svolta nel luogo che le è proprio, e non sul divano, sul tavolo della cucina, in quello del salone. E qui ovviamente mi limito dalle professioni intellettuali o a quelle svolgibili con il lavoro agile.

Tanto più questo vale per i ragazzi. Perché le scuole sono il sistema linfatico della nostra società, così come le università, le accademie, i conservatori, le istituzioni tutte in cui si fa cultura. Per questo vanno frequentate.

Solo tornando a lavoro, e non solo simbolicamente, potremo tornare con più consapevolezza a fruire di film, romanzi, libri. Per goderne appieno, per destinar loro il nostro tempo, quello libero (che non significa leggero), quello di quando si esce o si torna a casa dopo una giornata di lavoro.

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