“Io non sono più un medico. Io mi sento un mostro!”. Sono queste le frasi che mi singhiozza via Skype un amico medico in prima linea nella battaglia contro il Covid sin dai primi giorni dell’emergenza. Per ben due volte ha dovuto impedire ai familiari di accedere alla sala nella quale il loro congiunto stava perdendo la sua battaglia contro il virus. In un caso è riuscito a portare al resto della famiglia un tablet col quale li ha messi in contatto per l’ultimo saluto. Poi, il buio.

Ha obbedito alle direttive, si è inchinato al giuramento di Ippocrate salvaguardando dall’infezione non solo i congiunti dei defunti, ma la cittadina nella quale avrebbero fatto ritorno. Ha fatto ciò che un buon medico deve fare.

Tuttavia qualcosa in lui è cambiato.

Difficoltà a dormire, incubi. Pianti incontrollati, isolamento auto-indotto. La sfilata di bare che vanno e vengono dall’ospedale come impressione indelebile. Qua mi fermo, perché questo lui mi concede io scriva.

Quanti medici, chirurghi, anestesisti, infermieri, barellieri si trovano oggi in questo stato? Quanti di loro si stanno spezzando, o si spezzeranno quando il limite della sopportabilità sarà raggiunto? Quanti stanno vivendo nel terrore del toccare i propri figli, dormendo e mangiando da soli, angosciati dalla certezza che le scene si ripeteranno la mattina successiva? Quanti camici bianchi hanno paura di tornare in reparto, costretti ad incarnare la figura del cerbero che separa gli affetti nel momento dell’addio?

Tra tutti gli aggettivi usati per definire i nostri sanitari, soldati è forse quello più calzante. Questo perché, come soldati al fronte, diversi tra di loro saranno colpiti dal disturbo post traumatico, una patologia insidiosa e subdola che si manifesta ed allunga i suoi tentacoli nel lungo periodo successivo al momento del trauma, intaccando il fluire della vita tanto da spezzarla. Un disturbo che i clinici sono stati abituai a osservare e trattare nel mondo dei reduci dagli scenari bellici.

Se vogliamo che il nostro corpo medico non venga decimato nel tempo, se lo Stato intende davvero salvaguardare questa risorsa oggi più che mai preziosa, è d’uopo pensare sin da oggi a delle strategie utili per il dopo pandemia.

Sarà necessario fare qualcosa che non è mai stato fatto, pensare cioè a costoro come soggetti fragili, vulnerabili, che devono essere messi nelle condizioni dapprima di riprendere contatto con la vita, e successivamente di tornare ad operare dentro agli ospedali.

L’esperienza insegna che il militare traumatizzato, che non ha elaborato, metabolizzato dunque superato il trauma, diventa un pericolo per sé e per gli altri qualora venga reimmesso nei ranghi senza un accurato trattamento. Non basterà mettere loro davanti una boccetta di tranquillanti, perché sono medici, e possono procurarseli in ogni momento.

Nemmeno servirà dare loro un giusto tempo di riposo e distanza dalle sale ospedaliere, poiché la lontananza dal lavoro in chi accusa gli effetti del dpts, senza un’adeguata operazione mirata di recupero, non riduce, ma amplifica il ritorno delle scene traumatiche che oggi vanno accusando.

Servirà un progetto che li metta in condizione di essere seguiti, uno per uno.

Lo Stato dovrà essere capace di pensare ad un intervento psicoterapeutico personalizzato, gratuito, una stanza di decompressione nella quale depotenziare i fantasmi che rischiano di travolgere chi non riesce a liberarsi dalle scene infernali.

Servirà chiamare al lavoro tanti clinici che sappiano trattare il trauma.

Bene dunque oggi definirli i eroi e omaggiarli a sirene spiegate. Ma è dopo, quando l’emergenza cesserà, quando le luci dei riflettori si abbasseranno che lo Stato dovrà ricordarsi di loro.

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