In un’Europa colpita dalla malattia, sconvolta dall’inadeguatezza delle sue scelte, sepolta dalla sua stessa inefficienza, si gioca a fare la guerra. Il primo è stato il Presidente francese Emmanuel Macron. Il goldenboy dei neoliberisti infatti è un noto habitué della militarizzazione della società civile – sia terminologica che materiale – e, seguendo la retorica emergenziale riscoperta dal predecessore Hollande nella Francia post-Bataclan, ha sempre gestito le situazioni di eccezionalità con uno stile che sembra la parodia del Generale Leone di lussiana memoria: il nemico esterno (Isis) rende chiara la divisione del campo di battaglia, il nemico interno (Gilets Jaunes) non deve conoscere pietà, quello totalizzante (Covid-19) lava i peccati e ci fa unire sotto la stessa bandiera. Esiste una bandiera comune tra noi e chi comanda questo mondo cane, siano essi francesi, tedeschi o italiani? Ovviamente no.

I piaceri dell’arte della guerra sono presto arrivati anche nel nostro Paese in una versione certamente annacquata. Il motivo – leggere il già citato Emilio Lussu per comprenderlo – crediamo sia un fattore culturale: l’italiano culturalmente non è soldato, non ci è mai riuscito. Siamo un popolo che la guerra non l’ha mai voluta, non l’ha mai saputa fare, un popolo che nella Storia ci è stato trascinato controvoglia ed è stato utilizzato come carne da macello. Il nostro Paese non si è mai ritrovato nell’idea di trincea; piuttosto, a dirla tutta, ci troviamo molto più a nostro agio a fotografare chi fa jogging da dietro una persiana socchiusa. Abbiamo una vocazione per la delazione più che per il coltello tra i denti; in una guerra saremmo i Carabinieri con i fucili puntati sulle proprie trincee, non il milite ignoto, e questo non cambierà certo con due canzoni alla finestra. Ma non è qui che vogliamo arrivare.

La notizia che ci ha ispirato questa riflessione – forse troppo severa, forse troppo vera – è quella del richiamo per addestramento militare del calciatore sud coreano del Tottenham Son Heung-min. In breve, nella Corea del Sud tutti i cittadini maschi devono prestare servizio di leva per 18 mesi, al fine di avere un esercito di riservisti sulle 600.000 unità pronte in caso di scoppio del conflitto con i vicini del Nord, ma l’attaccante del Tottenham era riuscito a evitare uno stop di più di 1 anno (drammatico per la sua carriera da calciatore) grazie alla vittoria nei Giochi Asiatici contro il Giappone, mentre era rimasta sullo sfondo l’ombra di quell’addestramento obbligatorio di 1 mese al quale nessuno può sottrarsi, con buona pace di Son. Con la Premier League ferma per pandemia e il calciatore a Seul per riprendersi da un infortunio, è arrivata in questi giorni la notizia: dal 20 aprile Son farà addestramento militare sull’isola di Jeju.

Agosto 2013, Capri. Il Presidente del Napoli De Laurentiis parla ai microfoni di Radio Kiss Kiss – dopo che il suo tesserato Gonzalo Higuain si è tuffato su uno scoglio e si è procurato 8 punti di sutura – chiedendo 100 milioni di danni al Comune di Capri e alla Regione Campania per presidi medici inadeguati. Questo potrebbe essere un nuovo spunto: cosa succederebbe se, alla fine di questo addestramento, la Corea del Sud “riconsegnasse” l’atleta al Tottenham con una gamba rotta? Da che parte si schiererebbe la Football Association? Quale sarebbe il trattamento riservato alla Federazione Coreana nel calcio inglese dopo questo incidente? Ci sarebbe di nuovo spazio per un calciatore di vertice coreano in Premier League in futuro? Si può considerare questo un addestramento militare o soltanto una buffonata mediatica e propagandista? A queste domande abbiamo solo risposte prevedibili – quasi scontate –, non certezze. Per rendere bene la situazione una certezza ce l’abbiamo, però: se l’emergenza sanitaria dovesse migliorare nel Regno Unito e il Tottenham dovesse tornare ad allenarsi prima del 20 aprile Son – come riportano media coreani – potrebbe calendarizzare questo addestramento in un altro momento.

Questa gerarchia di potere sulla vita del calciatore dovrebbe far immaginare anche le risposte alle domande precedenti. E allora viene da pensare a quanto sia ridicolo il militarismo e la sua retorica in quest’epoca, quanto sia un retaggio anacronistico dal quale facciamo fatica a liberarci. A chi comanda serve per farci sentire soldati e non cittadini, noi ne abbiamo bisogno perché ci sentiamo più sicuri con una divisa immaginaria cucita addosso. Fuori da una scuola elementare della mia città – Livorno – i bambini scrissero, sopra ai colori della Pace, “io ripudio la guerra! E tu?”. Una mano geniale aggiunse: “io ci cào sopra”. Non dimentichiamocelo neanche in questi tempi duri, dato che la società di domani nasce anche dal linguaggio di oggi.

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